Archivio mensile: Maggio 2017

Capo Nord

Giugno 1994

Molto difficile trovare i biglietti per questa crociera di sei giorni con partenza da Bergen fino a Capo Nord. Piccole navi della flotta Lofoten (prende il nome dalle isole nor vegesi), che ha sempre assicurato il servizio postale, laddove era impossibile raggiungere via terra alcune località. Non si tratta quindi di una crociera in senso tradizionale, ma si è imbarcati su una nave che svolge servizio sociale. Periodo ideale è Giugno.

 

Man mano che si toccano i vari paesi, è possibile fare delle escursioni a terra e imbarcarsi più avanti sulla nave.

Alesund

 

Monumento in memoria di un sottomarino naufragato in periodo bellico.

 

Holandsfijord

Ghiacciaio Svartisen

 

 

Trondheim

 

 

Kristiensund

  

TROMSO

Amudsen

Nettuno. Consegna il certificato di passaggio del circolo polare e qualcuno versa dei cubetti di ghiaccio dietro al collo dei viaggiatori.

Hammerfest

Capo Nord ( 22 km dal confine russo)

   

 

 

 

 

INDONESIA LOMBOK

Lombok si trova a solo mezzora di aereo da Bali.

A nord est ci sono le isole Gili: un paradiso.

 

A nord ovest la catena indiana The Oberoi ha aperto uno splendido hotel.

Le suites sono recintate ed hanno la loro piscina riservata.

L’Infinito Viaggiare

 

Un libro molto bello. La prefazione è un saggio sul profondo significato del viaggiare: – Viaggio come “persuasione”, cioè “il possesso presente della propria vita, la capacità di vivere l’attimo, ogni attimo”. – Viaggio come ricerca e come rinnovamento. “Molte cose cadono, quando si viaggia; certezze, valori, sentimenti, aspettative che si perdono per strada – la strada è una dura, ma anche buona maestra. Altre cose, altri valori e sentimenti si trovano, s’incontrano, si raccattano per via.” Il viaggio come fuga dalla propria realtà quotidiana è “immorale”. Perché “L’avventura più rischiosa, difficile e seducente si svolge a casa; è là che si gioca la vita, la capacità o incapacità di amare e di costruire, di avere e dare felicità, di crescere con coraggio o rattrappirsi nella paura; è là che ci si mette a rischio.” – Viaggio come scuola di umanità. “Viaggiare insegna lo spaesamento, a sentirsi sempre stranieri nella vita, anche a casa propria, ma essere stranieri fra stranieri è forse l’unico modo di essere veramente fratelli. Per questo la meta del viaggio sono gli uomini; non si va in Spagna o in Germania, ma fra gli spagnoli o fra i tedeschi.” – Viaggio come ritorno. “Conoscere è spesso, platonicamente, riconoscere, è l’emergere di qualcosa magari ignorato sino a quell’attimo ma accolto come proprio. Per vedere un luogo occorre rivederlo … ‘Perché cavalcate per queste terre?’ chiede nella famosa ballata di Rilke l’alfiere al marchese che procede al suo fianco. ‘Per ritornare’ risponde l’altro”.

ZeroZeroZero

 “Scrivere di cocaina è come farne uso. Vuoi sempre più notizie, più informazioni, e quelle che trovi sono succulente, non ne puoi più fare a meno. Sei addicted. Anche quando sono riconducibili a uno schema generale che hai già capito, queste storie affascinano per i loro particolari. E ti si ficcano in testa, finché un’altra – incredibile, ma vera – prende il posto della precedente. Davanti vedi l’asticella dell’assuefazione che non fa che alzarsi e preghi di non andare mai in crisi di astinenza. Per questo continuo a raccoglierne fino alla nausea, più di quanto sarebbe necessario, senza riuscire a fermarmi. Sono fiammate che divampano accecanti. Assordanti pugni nello stomaco. Ma perché questo rumore lo sento solo io? Più scendo nei gironi imbiancati dalla coca, e più mi accorgo che la gente non sa. C’è un fiume che scorre sotto le grandi città, un fiume che nasce in Sudamerica, passa dall’Africa e si dirama ovunque. Uomini e donne passeggiano per via del Corso e per i boulevard parigini, si ritrovano a Times Square e camminano a testa bassa lungo i viali londinesi. Non sentono niente? Come fanno a sopportare tutto questo rumore?” (Roberto Saviano)

I Bastardi di Pizzofalcone

Non hanno neanche il tempo di fare conoscenza, i nuovi investigatori del commissariato di Pizzofalcone. Mandati a sostituire altri poliziotti colpevoli di un grave reato, devono subito affrontare un delicato caso di omicidio nell’alta società. Le indagini vengono affidate all’uomo di punta della squadra, l’ispettore Giuseppe Lojacono, siciliano con un passato chiacchierato ma reduce dal successo nella caccia a un misterioso assassino, il Coccodrillo, che per giorni ha precipitato Napoli nel terrore. E mentre Lojacono, assistito dal bizzarro agente scelto Aragona, si sposta tra gli appartamenti sul lungomare e i circoli nautici della città, squassata da una burrasca fuori stagione, i suoi colleghi Romano e Di Nardo cercano di scoprire come mai una giovane, bellissima ragazza non esca mai di casa, e il vecchio Pisanelli insegue la propria ossessione per una serie di suicidi sospetti.

Terroni

Fratelli d’Italia… ma sarà poi vero? Perché, nel momento in cui ci si prepara a festeggiare i centocinquant’anni dall’Unità d’Italia, il conflitto tra Nord e Sud, fomentato da forze politiche che lo utilizzano spesso come una leva per catturare voti, pare aver superato il livello di guardia.

Pino Aprile, pugliese doc, interviene con grande verve polemica in un dibattito dai toni sempre più accesi, per fare il punto su una situazione che si trascina da anni, ma che di recente sembra essersi radicata in uno scontro di difficile composizione.

Percorrendo la storia di quella che per alcuni è conquista, per altri liberazione, l’autore porta alla luce una serie di fatti che, nella retorica dell’unificazione, sono stati volutamente rimossi e che aprono una nuova, interessante, a volte sconvolgente finestra sulla facciata del trionfalismo nazionalistico.

Terroni è un libro sul Sud e per il Sud, la cui conclusione è che, se centocinquant’anni non sono stati sufficienti a risolvere il problema, vuol dire che non si è voluto risolverlo.

Come dice l’autore, le due Germanie, pur divise da una diversa visione del futuro, dalla Guerra Fredda e da un muro, in vent’anni sono tornate una. Perché da noi non è successo?

 

Caffè amaro

Gli occhi grandi e profondi a forma di mandorla, il volto dai tratti regolari, i folti capelli castani: la bellezza di Maria è di quelle che gettano una malìa su chi vi posi lo sguardo, proprio come accade a Pietro Sala – che se ne innamora a prima vista e chiede la sua mano senza curarsi della dote – e, in maniera meno evidente, all’amico Giosuè, che è stato cresciuto dal padre di lei e che Maria considera una sorta di fratello maggiore. Maria ha solo quindici anni, Pietro trentaquattro; lui è un facoltoso bonvivant che ama i viaggi, il gioco d’azzardo e le donne; lei proviene da una famiglia socialista di grandi ideali ma di mezzi limitati. Eppure, il matrimonio con Pietro si rivela una scelta felice: fuori dalle mura familiari, Maria scopre un senso più ampio dell’esistenza, una libertà di vivere che coincide con una profonda percezione del diritto al piacere e a piacere. Attraverso l’eros, a cui Pietro la inizia con sapida naturalezza, arriva per lei la conoscenza di sé e dei propri desideri, nonché l’apertura al bello e a un personalissimo sentimento della giustizia. Durante una vacanza a Tripoli, complice il deserto, Maria scopre anche di cosa è fatto il rapporto che, fino ad allora oscuramente, l’ha legata a Giosuè. Comincia una rovente storia d’amore che copre più di vent’anni di incontri, di separazioni, di convegni clandestini in attesa di una nuova pace.

Budapest

Visitata nel 2007

Certamente è la più bella capitale dell’ Est.

Splendido lo scenario in cui Il Parlamento si riflette nel Danubio.

Da non mancare la visita al Parlamento.

La Sinagoga

Rèzkakas. Ristorante di classe con violnisti molto bravi.

Terme Hotel Gellart

 

Splendide terme che ti riportano indietro nel tempo.

Il merito come virtù sociale

Cenni storici

Più di duemila anni fa Plauto (250 – 184 a.C. ) nella sua commedia Amphitruo[1],parla di merito: “Virtute ambire oportet, non favoritibus. Sat habet favoritorum semper, qui recte facit”.” Dobbiamo tendere ad aver successo per merito, non per favoritismo. Colui che agisce bene avrà sempre abbastanza sostenitori”.

Napoleone[2]

Anche la Francia Napoleonica da molti è considerata esser stata meritocratica. Dopo la rivoluzione del 1792 non rimase quasi nessun membro dell’elité precedente. Quando Napoleone salì al potere, non c’era nessuna base precedente dalla quale estrarre il suo staff, e così dovette scegliere quelle persone che secondo lui avrebbero lavorato al meglio, compreso ufficiali dalle sue armate, rivoluzionari che erano stati nelle assemblee del popolo, e anche qualche aristocratico del precedente regime come il primo ministro Talleyrand. Questa politica era riassunta da una frase di Bonaparte spesso citata “La carrière ouverte aux talents“, ovvero la carriera è aperta ai talenti, o come più facilmente tradotto da Thomas Carlyle “gli strumenti a chi li può maneggiare”. Un chiaro esempio è l’istituzione della Legion d’onore, il primo ordine di merito, che ammette uomini di qualsiasi classe. Questi erano valutati non per i loro antenati ma per le capacità nelle scienze, nelle arti e nelle virtù militari. Una successiva pratica non-meritocratica da parte di Napoleone fu comunque il nepotismo con il quale nominava membri della sua famiglia e amici corsi a ricoprire importanti posti (specialmente comandi regionali); la lealtà poteva forse essere stata un più importante fattore piuttosto che il puro merito nella prestazione e compimento dell’incarico, un comune caso nelle situazioni politiche.

La riforma Gentile della scuola

Il più evidente tentativo da parte di un sistema politico di basarsi su una meritocrazia pura è stato quello dei regimi fascisti nel loro tentativo di creare l’uomo nuovo[3], fallendo in questo proposito proprio perché andava a colpire interessi personali lobbistici rilevanti.

Uno dei primi atti del governo Mussolini fu una radicale riforma scolastica portata avanti dal ministro Giovanni Gentile nel 1923: questa prevedeva un’istruzione classica e un esame a ogni conclusione di ciclo di studi, mettendo in questo modo sullo stesso piano scuole pubbliche e private. L’analfabetismo ebbe un calo generalizzato, soprattutto l’analfabetismo femminile. La riforma tuttavia non fu mai completata nel senso voluto dal filosofo, ma subì diversi aggiustamenti successivi.

Fra gli scopi fondamentali – in senso fascista – della riforma vi era l’elevazione della scuola dell’obbligo ai 14 anni (per la lotta all’analfabetismo); la preminenza assoluta degli insegnamenti classici, i soli che permettevano l’accesso all’università, una regola che tuttavia subì successivamente modifiche (lo scopo era selezionare un’ élite intellettuale per la guida del paese); la realizzazione di una solida istruzione tecnica per tutti coloro i quali invece non avessero avuto le doti per accedere ai gradi superiori d’istruzione (allo scopo di gerarchizzare la società, ma anche di preparare meglio i futuri lavoratori).

Nel complesso si trattò di una riforma all’insegna della gerarchia e della più rigida meritocrazia.

Nel 1939 seguì la riforma Bottai. Accusando la vecchia riforma Gentile di “intellettualismo”, Bottai si prefissò di allargare la base d’accesso agli atenei, e propose l’unificazione delle scuole medie (unico provvedimento di questa riforma a essere sopravvissuto alla catastrofe bellica). La seconda guerra mondiale impedì la completa applicazione della riforma Bottai, che rimase in gran parte sulla carta.

Differenze con un sistema politico

Secondo alcuni i sistemi marxisti sono opposti ad un sistema meritocratico, ma l’antitesi tra marxismo e meritocrazia è solo apparente: la concezione della meritocrazia marxista prevede che ci sia una netta separazione tra i bisogni e i poteri decisionali. In altre parole al merito viene riconosciuto il diritto/dovere di prendere le decisioni senza che a questo debba necessariamente corrispondere un privilegio in termini materiali. Il principio così esposto ha molte similitudini con la lettura cristiana della parabola dei Talenti. È quindi giusto che il figlio dell’operaio, se meritevole faccia il medico o il presidente del consiglio, e, d’altra parte, il figlio del medico o del presidente del consiglio, se non particolarmente abile nella medicina o nella amministrazione, faccia l’operaio, ma ciò non significa che i loro bisogni materiali siano differenti e che la loro retribuzione e i loro privilegi sociali debbano per questo essere eccessivamente distanti. Il fatto stesso che un lavoratore persino eccessivo nel suo attaccamento al dovere sia normalmente denominato “stakanovista“, sottolinea come anche il sistema sovietico apprezzasse il merito nel lavoro.
La meritocrazia in America

Gli Stati Uniti[4] si considerano come l’incarnazione stessa della meritocrazia: un paese dove le persone vengono giudicate sulla base delle loro capacità individuali piuttosto che dai legami familiari.

I primi colonizzatori erano profughi che provenivano da un’Europa in cui le restrizioni alla mobilità sociale erano strettamente connesse alla struttura degli stati, mentre la rivoluzione americana è stata in parte una rivolta contro il feudalismo.

L’ America, tuttavia, spesso è venuta meno ai suoi ideali. I Padri Fondatori negavano il permesso a donne e neri di entrare a far parte della loro Repubblica meritocratica. Oggi la maggioranza degli Americani pensa che il proprio paese offra opportunità ad ognuno, incluse quindi le donne ed i neri.

C’e’ da chiedersi se ciò corrisponde alla realtà.

L’ideale meritocratico e’ certamente in difficoltà.

La diseguaglianza di reddito è in vistosa crescita.

La mobilità sociale non è in aumento ed i figli dei privilegiati hanno maggiore possibilità di rimanere al vertice della piramide sociale.

La diseguaglianza di reddito in aumento è vista come il prezzo da pagare per una economia dinamica. Tuttavia non si assiste ad un aumento proporzionale della mobilità.

La prova più evidente di questa schlerosi sociale deriva dalla politica. Basti pensare alle ascese nello scenario politico di George Bush ( figlio di un presidente), John Kerry ( l’uomo più ricco in un senato pieno di plutocrati), Al Gore (figlio di un senatore) e tanti altri.

Ovunque si volga lo sguardo oggi nella moderna America e cioè alle colline di Hollywood, a Wall-Street, Nashville o alle case in legno di Cambridge nel Massachusetts si vedono solo delle èlite dominanti, impegnate solo a perpetuarsi. L’ America è sempre più alla ricerca, come la Gran Bretagna imperiale, di meccanismi di rafforzamento dell’esclusione sociale. Cresce il divario tra chi prende le decisioni e plasma la cultura e la stragrande maggioranza dei lavoratori.

Una grande eco ebbe l’iniziativa del Presidente di Harvard (dal 1933 al 53) di creare un programma di borse di studio.[5] Solo l’abilità individuale avrebbe determinato l’ammissione nelle migliori università ( ad Harvard presto si aggiunsero Princeton e Yale).

Tuttavia questa riforma è stata solo parzialmente realizzata.

I membri della èlite americana vivono in un contesto altamente concorrenziale. Fin da bambini vengono traghettati dalle lezioni di pianoforte a corsi di danza a early-reading classes. Da adolescenti vengono sottoposti a continui coaching post-scolastici. Da studenti competono per entrare nelle migliori scuole superiori. Da giovani professionisti dedicano anche il tempo libero al servizio dei loro datori di lavoro. I genitori sono esasperati dalla corsa ad inserire i figli nelle migliori università. E’ difficile per queste persone immaginare che l’America sia altro che meritocrazia: le loro vite sono una perpetua competizione. Una competizione tra persone a loro simili, la prole cioè di un piccolo frammento della società, piuttosto che l’intera gamma di talenti che il paese può offrire.

Inoltre in America la mobilità verso l’alto è fortemente condizionata dal sistema dell’istruzione. I redditi delle persone con un semplice diploma di scuola superiore era appiattito nel periodo 1975-99, mentre quello dei laureati saliva notevolmente fino a raggiungere impennate vertiginose per coloro che avevano conseguito specializzazioni post universitarie.

I bambini poveri hanno un duplice svantaggio. Frequentano scuole con scarse risorse e quindi hanno docenti di serie B e non godono di aiuti, riservati agli studenti più meritevoli.

Le grandi Università rafforzano anzicchè ridurre le diseguaglianze educative. Gli studenti più poveri sono in enorme svantaggio, sia quando cercano di entrare e , se hanno successo, nella loro capacità di sfruttare al meglio ciò che viene offerto. Questo svantaggio è più marcato in quelle Università di eccellenza, che detengono le chiavi per i lavori migliori. Prendendo in considerazione un campione di ben 146 tra le migliori Università, soltanto il 3% degli studenti proviene dalle classi più povere ( il reddito familiare medio ad Harvard è di $ 150mila).

Inizialmente lo stato aveva istituito un fondo federale di sostegno (Pell) a favore degli studenti più bisognosi, le cui famiglie dichiaravano un reddito inferiore ai 41mila $ annui. Successivamente questi ed altri interventi sono stati spostati verso beneficiari indifferenziati, cioè senza più tener conto del reddito familiare.

Nel suo libro” The Promise of American Life”, Herbert Croly ha osservato che una democrazia non meno che una monarchia o aristocrazia, deve prendere atto delle differenze politiche, economiche e sociali. Tuttavia va ritirato il consenso ogni volta che si verifichino resistenze eccessive ad eliminare le discriminazioni.

La tolleranza infatti non può durare per sempre, se la tendenza corrente verso una eccessiva resistenza non viene invertita.

Sessantotto e merito

Questo periodo viene anche definito come la “rivoluzione italiana”[6], è stato soprattutto il frutto di una crisi generazionale. Ma se si guarda al contenuto concettuale più che una parvenza di ritorno al comunismo delle origini, si è trattato di una rivoluzione di tipo libertario.

Dal libertario al libertino: qualcuno ha visto nel ’68 l’anticipazione del berlusconismo. “Il fare quello che si vuole” è una formula onnivora. Anche nella democrazia ateniese quando si voleva incutere a un politico un certo timore si diceva: “qui si cerca di impedire al popolo di fare quello che vuole”. Allora non si può certo affermare che il berlusconismo sia l’erede del ’68. Tuttavia si può affermare che una èlite sessantottesca è confluita nel craxismo e Craxi fu il padre di Berlusconi.

Dal sessantotto[7] in poi è passato il principio del “6 politico”, la filosofia del “siamo tutti uguali”, del “bravi o no il posto di lavoro non si tocca”. Chi è dentro come insegnante nelle scuole e nelle università deve essere riconfermato, senza concorsi né valutazioni. La verità è che il ’68 ha dato uno scossone nell’organizzazione della società, ma mentre in Francia il sistema si è subito ripreso, in Italia il movimento non ha mollato mai, è durato altri dieci anni, e ha deformato in profondità la società italiana.

Non solo la scuola quindi ha perso la capacità di stimolare il merito, ma anche la famiglia ha perso autorità. Si sono persi valori antichi, come quello del sacrificio unica via per ottenere le cose.

Nella pubblica amministrazione, ad esempio, sono stati erogati aumenti uguali per tutti, bravi e meno bravi.

Il movimento parte proprio dalla contestazione studentesca al sistema dell’università, considerata una sorta di gabbia ingessata, basata sul principio di autorità.

“Il sessantotto” spiega Michele Ainis[8] “ e’ stato importante proprio perché ha fatto nascere un vento che ha spazzato via un clima insopportabile. All’Università, come in fabbrica, come in casa il modello sociale era autoritario, soffocante. Nel 1970 è arrivato lo statuto dei lavoratori, poi la legge sul divorzio e tante altre cose: se non fosse stato per il Sessantotto non sarebbero mai arrivati certi diritti, non si sarebbero mai compiute queste riforme. Si è aperto un periodo di ricerca di uguaglianze, ma c’è stato un errore di interpretazione. Ci sono due modi di concepire il principio di uguaglianza : si è uguali all’arrivo o alla partenza? Il Sessantotto rispose all’arrivo, mentre la risposta giusta era alla partenza”.

Il movimento si propone – ad esempio -di far prendere a tutti la laurea. Diverso sarebbe stato pretendere che tutti potessero avere le stesse opportunità di sviluppare i propri talenti, le proprie diversità, magari anche mettendosi alla prova frequentando l’università. Bisognava concentrarsi sulla linea di partenza, invece ci si è concentrati sul podio. Medaglie a tutti, il che equivale a medaglie per nessuno.

Il sessantotto, pur essendo stato un bene, alla fine ha depresso il merito. Ha prodotto un brodo culturale, una sorta di cultura dei diritti intesi come accondiscendenza dei sogni, spesso come pulsione egoistica: i diritti non sono mai a somma zero. Per ogni diritto che guadagno qualcuno vede sorgere un dovere.

In una multinazionale con sede a Milano[9], nel Centro Laureati era invalsa la distinzione ( come per le annate del vino) tra laureati ante o post ’68. Ovviamente la preparazione dei secondi aveva dovuto fare i conti con le occupazioni, i continui scioperi ed i voti “politici”.

MERITOCRAZIA E MERITORIETA’[10]

Il termine meritocrazia (M) è l’unione del latino merere, mereor (guadagnare , farsi pagare) e del greco kratos (potere). E’ dunque il potere del merito,

cioè il principio di organizzazione sociale che fonda ogni forma di promozione e di assegnazione di potere esclusivamente sul merito. Il merito è dunque la risultante di due componenti : il talento che ciascuno ottiene dalla lotteria naturale e l’impegno profuso dal soggetto nello svolgimento di attività o mansioni varie. La nozione di talento tiene conto delle condizioni di contesto, dal momento che il quoziente di intelligenza dipende anche dall’educazione ricevuta e da fattori socio-ambientali.

Ecco perché il criterio meritocratico, secondo il giudizio del suo inventore[11], non può essere preso come criterio, né primo né principale per la distribuzione delle risorse di potere, economico e politico. Si scivolerebbe – come Aristotele aveva chiaramente intravisto – verso forme di più o meno velate di tecnocrazia oligarchica. Una politica meritocratica contiene in sé i germi che portano, alla lunga, alla eutanasia del principio democratico.

Ben diverso è il giudizio nei confronti della meritorietà che è il principio di organizzazione sociale basato sul “criterio del merito” e non già del “potere del merito”. E’ certo giusto che chi merita di più ottenga di più, ma non tanto da porlo in grado di disegnare le regole del gioco – economico e/o politico – capaci poi di avvantaggiarlo. Si tratta cioè di evitare che le differenze di ricchezza associata al merito si traducano in differenze di potere decisionale. Tutti devono essere trattati come eguali, il chè è quanto la M. non garantisce affatto. Mentre la M. invoca il principio del merito nella distribuzione della ricchezza, cioè post-factum, la meritorietà si perita di applicarlo anche nella fase di produzione della ricchezza, mirando ad assicurare l’eguaglianza delle capacità. Insomma, il problema serio con la nozione di M. non sta nel merere, ma nel kratos. La meritorietà, invece , fa propria la distinzione di merito come criterio di selezione tra persone e gruppi e merito come criterio di verifica di una abilità o risultato conseguito. Il primo è respinto; il secondo è accolto. La meritorietà è dunque la meritocrazia depurata della sua deriva antidemocratica.

RACCOMANDAZONI-SEGNALAZIONI

Il raccomandato[12] si rivolge a un raccomandante, una persona di potere, che, assicurando un privilegio al raccomandato, accresce ancora di più il proprio prestigio e il proprio stesso potere: se riuscirà infatti a “piazzare” l’interessato, avrà dato una prova di forza, avrà inserito un suo uomo nell’ingranaggio e potrà contare su una persona in più che gli deve un favore.

Anche in Inghilterra un professore universitario può inviare a un collega un curriculum accompagnato da una sua lettera, ma in Gran Bretagna nessuno si spenderebbe mai per qualcuno che non lo meritasse, pena la perdita di credibilità nel proprio ambiente. Da noi, in pratica, far promuovere un cretino è una prova di forza, altrove sarebbe una prova di debolezza.

La raccomandazione nasce ovunque esiste un potere consolidato e, contestualmente, scarseggiano le capacità e le opportunità: e’ importante che il potere sia concentrato. Il raccomandante deve poter manovrare il destino di tutti i soggetti in gioco nel mondo in cui interviene; il controllo deve essere monopolizzato, o almeno gestito da un oligopolio che possa tenere in scacco il sistema e regolarne ingressi e uscite. Il nemico della raccomandazione è la parcellizzazione : tanti potenti, nessun potente. Altro nemico della “spintarella” è la preparazione del candidato: più cultura si ha, più fatica si è fatta a formarsi, più si è investito in se stessi, meno si ha necessità dell’aiuto degli altri.

Il metodo universalmente riconosciuto per inserirsi e avanzare nel mondo del lavoro e in quello accademico sembra essere “conoscere qualcuno”[13].

Contano moltissimo le “raccomandazioni” personali, informali e dietro le quinte, fatte da qualcuno che magari non conosce nemmeno il raccomandato. Si tratta di raccomandazioni molto diverse da quelle che si fanno nel mondo anglosassone, dove chi raccomanda qualcun altro lo può fare perché lo conosce bene e investe una notevole quantità di tempo per descrivere il proprio raccomandato, perché sa di essere parzialmente responsabile di un potenziale demerito e perché il documento di raccomandazione è un attestato formale di impegno personale da parte del raccomandante e del raccomandato. Insomma il raccomandante ci mette “la faccia”. In Italia si tratta di raccomandazioni verbali di persone che spesso non si conoscono neppure, e costituiscono un debito contratto dal raccomandato.

La profonda sfiducia nel merito ”vero” come leva per salire socialmente rende i giovani italiani meno mobili dei loro coetanei: hanno poche ambizioni o, se le hanno, non hanno alcuna fiducia nella competizione vera. Stanno quindi a casa sino a trent’anni ad aspettare che qualcuno crei loro una opportunità il più possibile “dietro l’angolo”, sperando di fare una carriera mediocre invecchiando tranquillamente, puntando magari sull’eventuale colpo di fortuna che può arrivare da una conoscenza o da una relazione privilegiata e aspettando i lasciti (non tassati) di genitori e zii.

L’ Economist[14] ha definito l’Italia “ un paradiso dei gerontocrati”.

Certamente la famiglia, in questa situazione di demerito, gioca un ruolo importante. I valori affettivi della famiglia non sono contrari al merito, ma la “famiglia” lo diventa quando si scade nel così detto “familismo amorale” e cioè nella tendenza di base alla quale gli individui appartenenti a una comunità tentano di massimizzare solamente i vantaggi materiali e immediati del proprio nucleo familiare, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo. Nei casi più degeneri, il gruppo ristretto sviluppa sistemi di regole e funzionamento in aperto contrasto con le regole della comunità (come nel caso della criminalità organizzata, in Italia spesso incardinata su basi familiari allargate).

La ragione fondamentale dietro la forza del familismo (l’appartenenza, rispetto al merito) italiano è la debolezza dello Stato, che non ha mai avuto la credibilità e l’autorevolezza necessarie per generare fiducia in una possibilità di sviluppo alternativa alla protezione offerta dalla famiglia. Lo Stato deve fornire agli individui un’alternativa di appartenenza e di sviluppo, diversa dalla famiglia, grazie alla cittadinanza – attraverso un serie di meccanismi e di politiche volti a limitare l’influenza della famiglia e l’eccessiva trasmissione di privilegi per via ereditaria, sia economici (per esempio, imponendo alte tasse di successione), sia culturali (garantendo a tutti un contesto educativo adeguato).

Giuseppe De Rita, presidente del Censis, denuncia nel suo ultimo libro[15] un ceto medio ipertrofico e clientelare. Un ceto medio di dimensioni mostruose. Autoreferenziale e familista. Un potere articolato in una serie di cerchi orizzontali, dove la cooptazione avviene non per capacità e sapere acquisito, ma per abilità a tessere relazioni personali e per appartenenza. In Italia la parola meritocrazia non ha cittadinanza , se non nei sogni e nelle utopie. Il noi dovrà sostituirsi all’io, il gusto del collettivo dovrà assorbire le pulsioni individuali, l’etica della responsabilità dovrà affermarsi come antidoto al cinismo e all’indifferenza diffusa[16].

I trentenni oggi valgono appena il 6,9% dell’universo imprenditoriale e gli over 70 raggiungono ormai il 9%. In Italia a 50 anni sei considerato ancora una giovane promessa mentre all’estero cambi mestiere e scrivi le tue memorie[17].

Ci siamo liberati dalle regole – affermando il primato assoluto della coscienza – e quelle poche che ancora rispettiamo possiamo trasgredirle perchè in fondo così “fan tutti” e “il mondo è dei furbi”[18].

Conclude De Rita: per uscire dalla palude e dall’immobilismo abbiamo bisogno di ardore, di qualcosa che brucia dentro di noi. Dobbiamo contare sulla leva di forze che custodiamo nel Dna di un popolo e che possono riaccendersi in qualsiasi momento. E chissà che nel fuoco del cambiamento non prenda corpo e si formi quella borghesia di cui oggi siamo orfani e la cui assenza sentiamo come un vuoto nel quale l’Italia è sospesa.

 La fuga dei cervelli

L’espressione “fuga dei cervelli” (in inglese brain drain) indica l’emigrazione verso paesi stranieri di persone di talento o alta specializzazione professionale. Tale termine, riferito al cosiddetto “capitale umano“, rievoca quello della “fuga dei capitali“, ovvero il disinvestimento economico da ambienti non favorevoli all’impresa. Il fenomeno è generalmente visto con preoccupazione perché rischia di rallentare il progresso culturale, tecnologico ed economico dei Paesi dai quali avviene la fuga, fino a rendere difficile lo stesso ricambio della classe docente.

Il fatto che giovani neolaureati e neodottorati vadano a lavorare in università e centri di ricerca di altre nazioni è fisiologico, al giorno d’oggi, perché connaturato alla forte globalizzazione attuale della ricerca. I grandi centri di ricerca attirano persone brillanti provenienti da tutto il mondo. La mobilità degli studiosi è un fenomeno comune fin dagli albori delle università e di per sé un fattore di arricchimento culturale e professionale, perché la ricerca non conosce frontiere. Il problema nasce quando il saldo tra gli studiosi che lasciano un Paese e quelli che vi ritornano o vi si trasferiscono è negativo.

La fuga dei cervelli avviene tipicamente dal resto del mondo verso gli Stati Uniti e l’Europa, dall’Europa verso gli Stati Uniti, e all’interno dell’Europa dai Paesi del Sud e dell’Est.[19]

Gli Stati Uniti possono vantare una lunga tradizione di accoglienza di “cervelli” provenienti da ogni parte del mondo. L’apertura della comunità scientifica americana ha consentito la costituzione di centri di eccellenza di livello mondiale, rappresentando un mondo di opportunità eccitanti.[20]

I giovani italiani che hanno deciso di studiare all’estero (torneranno mai in Italia?) sono ormai più di 45mila. Forse 50mila. Vanno in Germania, in Austria, in Gran Bretagna, in Francia, in Spagna, negli Stati Uniti, e iniziano a muoversi perfino verso i paesi dell’Est. Che cosa li spinge a una mobilità così accentuata e definitiva, a comportamenti apolidi? Sicuramente il fatto che in un tessuto produttivo formato per il 95 per cento da piccole e medie aziende, non ci sono molti spazi di lavoro per i livelli più alti di istruzione. In Italia la laurea non serve a trovare un lavoro: da noi meno di 7 giovani laureati su 10 (il 66,9 per cento) sono occupati, rispetto ad una media europea dell’84 per cento, con paesi come la Gran Bretagna e la Francia che arrivano rispettivamente all’88,5 per cento e all’87,1 per cento. Anche per questo negli ultimi dieci anni abbiamo perso due milioni di cittadini di età compresa tra i 15 e i 34 anni.

Ma la grande fuga all’estero ha a che fare anche con l’affannosa ricerca – per vie esterne al tessuto sociale italiano – del merito, delle competenze, del talento che in altri paesi viene certificato e affermato. Ricordiamo che la stragrande maggioranza degli italiani (oltre l’81 per cento) considera essenziali, per farsi strada, i buoni rapporti, le relazioni, le amicizie , le raccomandazioni. Secondo un’indagine della Fondazione Migrantes, il 40 per cento dei giovani intervistati considera “ una sfortuna “ vivere in Italia . per via della precarietà, della corruzione , della criminalità e delle prospettive sfavorevoli in materia di status economico.

L’emigrazione dei giovani studenti ha contribuito ad allargare lo spazio del vuoto borghese consolidando l’impoverimento delle nostre classi dirigenti, da tempo incapaci di trasmettere ruoli e conoscenze alle nuove generazioni, nonché blindate a presidio delle loro compatte gerarchie del potere, dove il merito, la competizione, i saperi vengono soffocati dal peso schiacciante della gerontocrazia italiana. Siamo sempre più orfani di quella borghesia che non c’è.[21]

Pacchetto Merito

Il Ministro Profumo ha presentato una possibile riforma, che possa privilegiare il merito:

Le superiori. La questione più visibile del “decreto merito” sarà lo “studente dell’anno”. Ogni istituto superiore dalla prossima stagione lo sceglierà tra chi avrà i voti più alti alla maturità, a partire da 100, tenendo conto della media degli ultimi tre anni, dell’impegno sociale e del reddito familiare. Lo “studente migliore” avrà una riduzione almeno del 30% delle tasse per l’iscrizione al primo anno di università e una borsa di studio aggiuntiva. Con la card “Io merito” otterrà sconti per musei e trasporti. Nel corso dell’anno scolastico i primi tre piazzati alla fase nazionale delle Olimpiadi per materie scolastiche saranno iscritti (gratuitamente) a “master class” estivi nella disciplina affrontata. Da ottobre Olimpiadi internazionali in sette materie.

Le università. Premi per docenti e ricercatori universitari, “in numero non superiore al 20%”, dopo “una valutazione pregevole della loro didattica”, secondo criteri stabiliti con regolamento di ateneo. Stop all’assenteismo dei professori d’ateneo: chi è a tempo pieno dovrà garantire 100 ore di didattica frontale ogni stagione, 80 ore per chi è a tempo definito. Gli studenti che hanno ottenuto i crediti formativi universitari previsti e con votazione media non inferiore a 28/30 possono sostenere l’esame di laurea con un anno di anticipo. Gli studenti dei corsi di dottorato di ricerca possono conseguire il relativo diploma con un anno di anticipo, previo giudizio del collegio dei docenti. Possibile l’iscrizione in due Università di pari livello (due triennali, due specialistiche, due master).

Il lavoro. Gli Atenei forniranno un elenco del 5 per cento dei laureati più bravi: saranno pubblicati sul sito del ministero dell’Istruzione e avranno una corsia privilegiata verso il lavoro grazie a incentivi fiscali applicati ai datori di lavoro per due stagioni (meno tasse sul reddito fino al 30% per chi li assume a tempo indeterminato entro tre anni dalla conquista della laurea). Il “portfolio” dello studente potrà essere consultabile dalle aziende e renderà pubbliche la conoscenza delle lingue straniere, le competenze musicali e informatiche, le esperienze di associazionismo, volontariato e sportive. Le Università migliori aderiranno a un’organizzazione internazionale del baccellierato, rete di istituti d’eccellenza.

Gli incentivi. Internazionalizzazione degli atenei grazie a incentivi per attrarre docenti dall’estero e per spingere pubblicazioni in inglese. E poi riforma dei convitti nazionali e degli educandati statali, ridenominati collegi italiani internazionali: anche questi dovranno diventare calamite di studenti e insegnanti stranieri e saranno aperti alla residenzialità e alla semiresidenzialità anche nei periodi estivi. Fin dal primo anno di studi superiori si applicano i metodi linguistici Clil (immersione linguistica). Le Università e gli istituti superiori di insegnamento a livello universitario aventi sede nel territorio di Stati esteri, e là riconosciuti come enti senza scopo di lucro, possono insediare proprie filiazioni in Italia.

Le iscrizioni. Resta il numero chiuso per Medicina e Architettura, ma per ogni facoltà le matricole dovranno fare il “test diagnostico” per capire se sono tagliate o no per quell’indirizzo (oggi uno studente su cinque abbandona l’università dopo il primo anno). Sul fronte concorsi, resiste l’abilitazione nazionale al titolo di professore ordinario, associato o ricercatore. La commissione sarà composta da cinque membri: uno designato dall’ateneo e tre esterni, sorteggiati. Il quinto sarà sorteggiato da una lista di studiosi in servizio presso atenei di Paesi aderenti all’Ocse. L’Agenzia di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur) stabilirà se i docenti prescelti avranno le caratteristiche richieste, altrimenti gli atenei perderanno quote di finanziamenti ordinari.

Le arti. Le istituzioni dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica valorizzano il merito e l’eccellenza dei propri studenti in base a sistemi premianti. Promuovono il coinvolgimento degli studenti in iniziative, nazionali e internazionali, di confronto e di competizione e in percorsi di studio di alta qualità. Nasce il Premio nazionale delle arti. Al vincitore di ciascuna sezione artistica è riconosciuta la riduzione di almeno il 30% delle tasse per l’iscrizione all’anno successivo o all’anno in corso se è l’ultima stagione. Il ministero dell’Istruzione sostiene progetti di produzione nel campo musicale di rilevanza nazionale, finalizzati a consolidare le esperienze degli studenti nelle formazioni orchestrali. [22]

Immediatamente si è scatenato un putiferio di critiche, capitanate dall’ex Ministro dell’Istruzione Fioroni, a cui si sono aggiunti subito dopo Puglisi, responsabile scuola nel Pd e Gasparri del Pdl.

In una recente puntata a Ballarò[23], il Ministro Profumo ha dichiarato che si è ispirato per questa miniriforma a quanto era già stato previsto e formalizzato dallo stesso Fioroni.

Conclusione

Probabilmente questo breve lavoro sarà destinato alla didattica rivolta ai giovani e quindi a loro dovrà essere richiesto di esprimere considerazioni conclusive, che certamente arricchiranno le poche riflessioni che seguono.

La prospettiva da prendere in considerazione e per la quale già si concentrano molti sforzi è quella che l’Unione Europea dovrà assumere le caratteristiche di un paese unificato. Il bivio è tra la nascita di una vera Europa in un mondo globale o la sua irrilevanza politica e storica.[24]

La situazione italiana in particolare è troppo angusta in quanto le grandi aziende, cioè quelle che meglio possono garantire ai talenti di esprimere il loro potenziale, rappresentano solo il 5% del totale. In un contesto di Europa unificata, ovviamente le chances di affermarsi salirebbero notevolmente.

La piccola impresa e’ un onemanshow, flessibile, ma poco organizzata. Non attira talenti ma esecutori. Il distretto cresce tutto assieme, ma non si sposta tutto assieme.[25]

Se finalmente considerassimo l’ Unione Europea un unico Stato, forse non dovremmo più definire l’allontanamento dei giovani emigrazione. Sarebbe semplicemente mobilità interna.[26]

Nella scuola del futuro bisognerà formare i docenti che devono conoscere il loro ambito disciplinare (competenza disciplinare), devono saper insegnare (competenza didattico-metodologica) e devono, soprattutto, saper valutare formando e orientando il progetto di vita unico e irripetibile di ogni singolo studente nella classe ( compe= tenza delle scienze dell’educazione)[27]

Quindi la F di formazione dovrà costituire il maggiore impegno da perseguire sia in ambito scolastico, universitario che in costanza di rapporto di lavoro.

Enfasi sull’apprendimento delle lingue, programmi Erasmus e soprattutto cambio di status delle prossime generazioni da “stanziale” a “nomade”. Ovvero in un mondo in cui si realizza sempre di più il fenomeno della globalizzazione, il “nomade” dovrà cogliere le opportunità ovunque esse si presentino.

Quanto Istituzioni di eccellenza tipo la Bocconi, vanno realizzando e cioè scambio di propri studenti con quelli della Università di Shangai, con esami da superare nelle rispettive lingue nazionali e stage presso aziende locali, dovrà essere diffuso anche in altre Università. Parimenti l’obbligatorietà dell’inglese negli ultimi anni corso (v. Politecnico di Milano) è altro provvedimento da estendere a tutte le sedi universitarie almeno nei corsi scientifici.

Orbene la stella polare dovrà essere rappresentata dal merito, garantendo a tutti i giovani le stesse condizioni di partenza.

 Piero ROMANO

Ottobre 2012

 

    Indice

   Cenni storici

  La meritocrazia in USA

  Il sessantotto e merito

  Meritocrazia e meritorietà

  Raccomandazioni – Segnalazioni

  La fuga dei cervelli

  Pacchetto Merito

  Conclusione

 

 

BIBLIOGRAFIA

T.M. Plauto, Prologo (LXXVIII)

Wikipedia ( Varie citazioni)

The Economist

  1. Abravanel, Meritocrazia, Garzanti 2008

  2. Abravanel , L. D’Agnese – Regole, Garzanti 2010

La Repubblica

  1. Floris, Mal di merito, Rizzoli 2007

  2. Zamagni, AICCON Bologna

  3. Young, The rise of the meritocracy, 1958

  4. De Rita, A. Galdo, L’eclissi della borghesia, La Terza 2012

  5. Da Empoli, La guerra del talento, Marsilio 2000

L’Espresso