Archivio mensile: Giugno 2018

Filippo La Mantia OSTE&CUOCO

Milano

Locale arredato in stile minimalista.

A pranzo e’ allestito un sontuoso buffet di chiara ispirazione siciliana.

Molto gustosi gli antipasti con verdure e insalate varie. Vini bianco e rosso Frascati. Tra i primi eccellente la pasta alla norma ed anellini. Ottime le polpettine al sugo. Infine ampia scelta di dolci tra cui gli immancabili cannoli e la cassata. Molto buono il passito  Donna Fugata.

Accurato servizio assicurato da studenti dell’ alberghiero in stage. Conto intorno ai 45 € a persona.

Il nr 1 a Lugano

Galleria Arté al Lago: una stella Michelin.

Ci riceve il Maitre di sala e ci fa accomodare ad un tavolo con vista lago. Inizialmente ci servono dei panini mignon ancora caldi molto assortiti. Ordino un “Crescendo di pasta bicolore ai gallinacci e fettine di anatra marinata”. Bella composizione e gradevole pietanza per la freschezza degli ingredienti. Quindi lamelle di pesce spada e noci di capesante con fumet di pesce affumicato.

A conclusione qualche dolcino:

Ottimo il servizio, assicurato da ben tre camerieri.

Quattro persone, solo un dessert e minerale : 75 CHF a testa.

Laureati: gap tra formazione e ruoli

Teresa Barone 20 giugno 2018 da PMI

Aumenta la percentuale dei laureati e dei diplomati sottoinquadrati: i dati del rapporto Censis-Eudaimon.

Tirocini formativi per fare carriera

Svolgere un lavoro inadeguato rispetto al percorso di studi completato rappresenta una condizione comune a 1,5 milioni di laureati e diplomati attivi in Italia, con età inferiore a 34 anni. Secondo il Rapporto Censis-Eudaimon relativo al Welfare aziendale, infatti, nel corso del 2017 il 32,4% dei laureati deve accontentarsi di un’occupazione che non consente di mettere a frutto quanto appreso durante il percorso accademico, mentre il 41,2% dei diplomati svolge un impiego che non si allinea con gli studi.

Soffermandosi sulle modalità di ricerca di lavoro, il report sottolinea come nel 2017 il 26,4% dei laureati si sia rivolto ai centri per l’impiego per trovare un’occupazione mentre nell’80,7% dei casi ha prevalso l’invio del Curriculum Vitae alle aziende seguito dal colloquio di lavoro. Se l’84,9% si è rivolto agli amici e ai conoscenti, il 9% ha partecipato a un concorso pubblico. Solo l’1,7%, infine, ha avviato un’attività di lavoro autonomo.

Da questa trappola per i giovani, come la chiama il Censis, bisogna uscire – afferma Alberto Perfumo, Amministratore Delegato di Eudaimon –. Un ruolo importante possono giocarlo le imprese, mettendo a disposizione dei figli dei loro collaboratori strumenti e percorsi dedicati all’orientamento. Penso a soluzioni che stimolino il confronto, che rafforzino la consapevolezza delle potenzialità di ognuno e, in definitiva, aiutino a fare scelte informate. Soluzioni che le imprese più virtuose possono estendere al di fuori dei propri uffici e stabilimenti, e aprire ai ragazzi dei territori in cui opera l’impresa, collaborando a quella novità della scuola italiana chiamata alternanza scuola-lavoro.

 

Villa Grock Imperia

Adrien Wettach in arte Grock e’ nato in Svizzera a Loveres nel 1880. Il padre orologiaio faceva fatica ad arrivare a fine mese per cui decise di aprire la locanda “Paradisli”, dove la famiglia intera intratteneva gli ospiti con musica e giochi.

Un giorno un piccolo circo giunse nel suo villaggio e Adrien – che aveva 6 anni – ne rimane letteralmente folgorato. ]Passarono gli anni e finalmente Adrien riusci’ a farsi assumere come cassiere in un altro circo.

Il primo ottobre del 2003 la coppia di comici Brick e Brock fu costretta a dividersi perche’ Brock venne chiamato alle armi. Il direttore chiese allora al giovane di scendere in pista e sostituire il clown. Adrien esegui’ alcuni numeri e il successo fu cosi’ eclatante che fu assunto come nuovo clown. Fu cosi’ che Adrien divenne…Brick…Brock…Grock!!!

Ben presto raccolse successi in tutta Europa in quanto era un clown completanmnete nuovo capace di stupire, intenerire, di far sorridere e di far sognare. Parlava 8 lingue, suonava ben 14 strumenti, componeva musica, inventava gags, ed animava sia la pista dei circhi che le platee dei teatri con grande energia e presenza scenica.

Nel 1919, al teatro Olimpia di Parigi, venne incoronato Re dei Clown. Era amico di altri artisti famosi come Picasso,Charlie Chaplin, Stanlio e Olio ed era stimato dai potenti dell’ epoca.

Quando approdo’ ad Imperia acquisto’ un ampio terreno e nel 1927 costrui’ l’attuale villa con splendido giardino, realizzando un circo di pietra.

 

Grock mori’ nel 1959 e la villa si spense, subendo un lungo periodo di chiusura e di abbandono nel corso del quale l’incuria, il degrado e visitatori abusivi ne ridussero la bellezza superficiale a brandelli. Finalmente un accurato restauro, conclusosi nel 2006, ha consentito di ripristinare l’antico fascino.

La villa e’ stata riaperta al pubblico nel 2010 ed e’ anche possibile guardare dei filmati in cui questo grande artista si esibisce.

Una Paiella da favola

Le Cinque Torri Civezza (IM)

A ridosso delle Colline che sovrastano San Lorenzo a Mare si trova nel centro del paesino questo rustico ristorante.

Una delle tre sorelle che gestiscono il locale ci accoglie con simpatia.

Entrando notiamo un forno a legna e ci passano davanti delle belle pizze che attenzioneremo la prossima volta.

Davvero eccellente la paiella composta da riso al dente, espressamente cucinato al momento, perfettamente integrato con cozze, gamberoni giganti, vongole e pezzetti di pollo.

Accompagnamo il tutto con una bottiglia di immancabile Pigato.

In conclusione cannolo alla siciliana e un bicchierino di mirto ghiacciato.

Servizio molto efficiente assicurato da due svelte e simpatiche cameriere.

Lavoro per giovani specialisti

Teresa Barone

Cresce la domanda di giovani lavoratori specializzati: ecco le figure ricercate ed i settori in cui è più alta la ricerca di giovani.

Ammontano a quasi 1,4 milioni i contratti di lavoro da avviare tra aprile e giugno 2018 secondo quanto riportato dal Bollettino del Sistema informativo Excelsior, realizzato da Unioncamere in collaborazione con ANPAL. Una stima positiva che riguarda per il 34% i giovani, tanto che i nuovi contratti programmati riguardano 143mila lavoratori con meno di 30 anni.

Contratti di lavoro

Le figure specialistiche più difficili da reperire sono soprattutto quelle che riguardano i professionisti in scienze informatiche, fisiche e chimiche, i tecnici in campo informatico, ingegneristico e della produzione, i progettisti, ingegneri e professioni assimilate.

Le maggiori difficoltà nell’identificare il candidato idoneo riguardano dunque le professioni a elevata specializzazione (scienze matematiche, informatiche, chimiche, fisiche e naturali) ma anche i gli artigiani e operai specializzati e i tecnici informatici.

Opportunità

In generale, i servizi finanziari e assicurativi, quelli informatici e delle telecomunicazioni, quelli del commercio e delle industrie della carta sono i settori che riservano più opportunità per i giovani.

 

Riflessioni

R   I   F   L   E   S   S   I   O   N   I

di Benedetto Remo Ingrassia

Le seguenti riflessioni non perseguono il modesto scopo di proporre il mio pensiero nella celata speranza che esso possa colmare dei “vuoti”, ma hanno la ben più ampia aspettativa di stimolare il lettore a pensare da sé anche al fine di assicurarsi il piacere di stare in buona compagnia con se stesso e sfuggire alla solitudine.

I PENSATORI. Il mondo di oggi non brilla per numero di veri pensatori e l’intelletto spesso si disperde nei rigagnoli del pressapochismo. Emerge sovente una classe dirigente pubblica e privata più dedita al comando che alla gestione e che persegue il fine dell’altrui obbedienza e non quello della condivisione. L’interesse di pochi sovrasta quello di molti, le differenze si accentuano, il rifiuto di ridurre le brutali disuguaglianze ha come conseguenza che la miseria è sempre più direttamente proporzionale alla ricchezza, l’arroganza e il disprezzo classista caratterizzano il comportamento di molti. Inoltre sono tuttora presenti moderne forme di schiavitù per le quali i padroni continuano a ignorare il loro debito nei confronti degli asserviti. La questione razziale è ancora irrisolta e il presente elenco accresce asintoticamente il numero degli elementi che lo compongono tanto da doverlo considerare costantemente incompleto. Nel perdurare di questa situazione, più che mai attuale è l’invettiva pronunciata nel Senato di Roma da Cicerone contro Catilina l’8 novembre del 63 A.C. (Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?).

La contestazione legale non sortisce effetti significativi e quella illegale non è auspicabile, l’unica aspettativa è riposta nell’attesa che si manifestino i cosiddetti “cicli vichiani” sull’alternanza di eventi ripetitivi e sperare che l’attuale oscurantismo ceda il passo ad un desiderato illuminismo. La storia ci insegna che Giovan Battista Vico, pur non avendo indicato tempi e durate di dette alternanze, aveva ragione.

LO STATO. Ovunque nel mondo la struttura della Pubblica Organizzazione Statale è costituita da coloro che, con ruoli diversi, comandano, gestiscono, contestano e subiscono.  Il tipo di assetto istituzionale delle prime tre categorie qualifica la suindicata struttura come dittatura o democrazia. In questo mondo dove troppo spesso non solo la giustizia, ma anche l’ingiustizia non sono uguali per tutti, la quarta categoria sopra indicata non è di norma presa in alcuna considerazione.

LA TOLLERANZA. Intesa comunemente come accettazione delle diversità, la tolleranza è una qualità non sufficientemente diffusa poiché è sovente sovrastata anche dall’arroganza e dall’insolenza. Tanti e variegati sono gli oggetti della tolleranza tra i quali emerge la difformità delle idee che molti valutano, perché proprie, le migliori in assoluto al pari di coloro che nel corso dei secoli ancora ritengono il loro Dio superiore a qualunque altro. Una rachitica accettazione delle diversità o, peggio, il loro rifiuto, è in buona misura dovuta oltre che alla “fragilità” di carattere a uno scarso grado di civiltà, istruzione e rispetto per gli altri e mal celano un inconsapevole disprezzo per se stessi paradossalmente convinti di essere sempre dalla parte di un’unica ragione.

I limiti della tolleranza variano in funzione dell’oggetto di riferimento. Non sono tollerabili le diversità rappresentate dalla malvagità, corruzione, terrorismo, pedofilia, femminicidio, violenza di genere, razzismo, illegalità e simili manifestazioni che, purtroppo, sono assai diffuse e che andrebbero condannate e punite severamente senza alcuna concessione di attenuanti. Un ricorso molto frequente alla tolleranza è quello cui si è costretti quando ci s’imbatte con l’altrui maleducazione o, più in generale, con le innumerevoli “bad manners”. La buona educazione non è più “di moda” e tutti i Galatei, compreso il primo scritto da Monsignor Giovanni Della Casa, andrebbero intitolati “Prediche inutili per maleducati e sordi congeniti”. E’ anche per questi motivi che emerge una ragione in più per comportarsi, almeno per se stessi, da “old fashion gentleman” anche a costo di suscitare ironie e sarcasmi, perché se il rispetto per gli altri può non essere apprezzato, è sempre auto gratificante quello per custodito per se stessi. La differenza tra un “signore” e un “cafone” risiede altresì nel fatto che il primo ha il dovere di restare tale anche nelle occasioni in cui potrebbe essere tentato di non esserlo. Sovente arroganti discendenti di una famiglia patrizia ritengono di essere, conseguentemente, titolari di “ereditata signorilità”. A fronte di tale falso convincimento replico che blasonati si nasce per puro caso, ma signori si diventa per costante determinazione. In vero, coloro che accettano il confronto con le diversità, escluse quelle già indicate come “intollerabili”, arricchiscono il proprio bagaglio culturale perché il riscontro con “l’altro” sortisce una delle due seguenti alternative entrambe positive; infatti, o se ne trae conferma della bontà delle proprie idee o si coglie la preziosa opportunità di rettificare ed ampliare le stesse sotto i riflettori di una “nuova luce”. Giova osservare che, a mio sommesso avviso, il grado di tolleranza è inversamente proporzionale a quello della propria fiacchezza intellettuale e culturale. E’ verosimile che le suddette affermazioni non trovino un unanime consenso, ma non essendomi ancora imbattuto con un pensatore che riesca a convincermi del contrario, non mi resta che laconicamente prendere atto che “tal dei tempi è il costume”.

 

LEALTA’ E FEDELTA’. Non sono sinonimi anche se, per alcuni tratti comuni, sono da molti considerati tali. La lealtà è una significativa componente del nostro carattere e delle nostre modalità comportamentali tanto che coloro che ne sono dotati obbediscono ai propri valori di moralità e correttezza anche nelle occasioni di notevole difficoltà durante le quali potrebbe sembrare più conveniente essere sleali. La lealtà è commisurata al grado di coerente interconnessione tra la propria condotta e i citati valori che nel tempo si sono interiorizzati. Secondo Platone “solo l’uomo giusto può essere leale” e ancora giova ricordare la puntuale esplicitazione di John Ladd, professore di filosofia presso la Brown University, secondo cui la lealtà è, in ogni sistema pubblico o privato che sia, un ingrediente essenziale della morale civile e umana. La lealtà dovrebbe sempre caratterizzare, tra gli altri, la politica ed anche il mondo del lavoro nel quale è auspicabile un comportamento corretto nei confronti di coloro ai quali si rende la propria prestazione professionale, verso i superiori, i colleghi e i subordinati senza mai escludere la lealtà verso se stessi con la conseguente esigenza di tenere anche conto delle proprie aspettative, speranze, desideri e lecite ambizioni. Il dovere coniugare la lealtà verso gli altri con quella per se stessi può generare una difficile situazione denominata “conflitto di lealtà” in parte risolvibile con l’uso della ragione e la capacità di cercare la migliore conciliazione tra diverse esigenze spesso tra loro contrastanti. Giova osservare che in assenza del citato conflitto è più corretto riferirsi alla fedeltà per la quale i comportamenti assunti sono avallati da sentimenti che sovente sono sostenuti dai dogmi ai quali ci si riferisce senza alcuna mediazione scaturente dall’uso della ragione e dell’intelligenza. In sintesi “avere fede” significa credere ciecamente in qualcosa che non si è in grado di provare ragionevolmente. La fedeltà soddisfa prevalentemente un soggettivo bisogno ed è un sentimento che sta alla base di tutte le religioni. Essa trae origine dall’imprescindibile necessità di ritenersi indelebilmente legati al rispetto delle promesse e dei patti anche in materia contrattuale e non reclama consensi, approvazioni e ricompense.  Conseguentemente la fedeltà è una virtù che ci vincola moralmente nei confronti di coloro sui quali, di norma, riponiamo la nostra rassicurante fiducia ancorché questo sentimento potrebbe non essere sempre essenziale per essere fedeli. La forma più diffusa di fedeltà è quella destinata al proprio Dio al quale ci si rivolge senza la necessità di un totale o parziale riscontro razionale dei dogmi ma sostenuti da un sentimento nel quale, in notevole misura, convergono amore e speranza che costituiscono le fondamenta di tutte le religioni le quali promettono una migliore continuità della vita terrena alla quale credere per fede. Anche in questo caso scoppia l’irrisolvibile conflitto tra “ragione e sentimento” e più specificatamente tra “atei e credenti”. Un’indiretta e parziale chiarificazione dei sentimenti sopra indicati può, a mio sommesso avviso, cogliersi dal seguente suggerimento: Siate fedeli ai componenti della vostra famiglia, alla Patria e al Dio a cui credete e siate leali verso tutti i restanti e voi stessi.

L’UNITA’ NAZIONALE. Sin dalla sua, nei fatti, parzialmente fallita costituzione, l’Italia è stata considerata un’entità che, ben lungi dal costituire un “sistema coordinato”, mescola disuguaglianze territoriali, sociali, politiche ed economiche ottenendo il medesimo risultato di chi tenta di miscelare l’olio con l’acqua. A conferma di quest’affermazione è sufficiente sottolineare come esempio, che si aggiunge a tanti altri, il risultato della violenta campagna elettorale conclusasi con l’esito del 4 Marzo 2018 caratterizzato dal fatto che l’elettorato ha diviso l’Italia in due diversi  schieramenti, coalizione di “destra” e movimento “5 stelle”, entrambi vincitori delle elezioni per il rinnovo del Parlamento. La classe politica di un tempo costituita dai De Gasperi, Malagodi, Almirante e Togliatti (per citarne solo alcuni) conseguì risultati lusinghieri (ottimi se confrontati con quelli ottenuti dai loro successori), ma non tali da ridurre il persistente “gap” tra il Nord e il Sud della penisola che si distinguono anche per “differenze antropologiche”. In occasione dei miei frequenti soggiorni milanesi ho più volte, con disappunto, assistito alla seguente scena: due lombardi di ceto molto modesto s’insultavano vicendevolmente, tra il serio e il faceto, dandosi del “terrone”, di contro sono compiaciuto per non avere mai  visto un meridionale, del medesimo livello sociale, dare del “polentone” a un suo conterraneo. I due fatti possono essere giudicati insignificanti e banali, ma forse un più acuto critico avrà validi motivi per proporne una sua diversa valutazione. La datata istituzione delle Regioni e il successivo federalismo, pur costituendo iniziative teoricamente apprezzabili, hanno in sostanza accentuato le differenze perché non solo non hanno rigenerato il logorato rapporto tra istituzioni e cittadini, ma hanno solo ben realizzato una crescita di potere e conseguente corruzione grazie anche alle migliaia di cariche elettive che si sono aggiunte a quelle, già fin troppo numerose, preesistenti. Tutto quanto sopra evidenziato non poteva non ripercuotersi anche sull’economia nazionale; una delle tante inchieste condotte da Il Sole 24 Ore ha rilevato che l’industria manifatturiera prospera al Nord anche a livello internazionale, mentre al Sud essa cerca di sopravvivere sotto il peso di un’ossessiva burocrazia, di una mafia sempre più invadente, di una dilagante corruzione e di un’ingiusta fiscalità statale e locale. Non sono certamente confortanti le dichiarazioni di chi afferma che in molti casi la Grecia, cui dobbiamo essere grati per non essere “ultimi” in Europa, sta peggio di noi, infatti, non è consolatorio che anche per questa fattispecie si goda di quella che io definisco la “soddisfazione per essere stati sorpassati in retromarcia”. Il sogno dei benefici di cui i siciliani avrebbero dovuto esultare grazie all’autonomia regionale è miseramente fallito e con esso quello di un federalismo costruito su fragili plinti di fondazione in materia amministrativa e fiscale. Le scelte di politica economica, in aggiunta alle non poche colpe del popolo, hanno perseguito finalità molto diverse da quelle che avrebbero dovuto e potuto conseguire. I flussi di denaro erogati alle Regioni del Sud hanno consentito al potere centrale di “mettersi a posto con la propria coscienza” (?), ma nessun serio e doveroso controllo è stato mai fatto, e così buona parte di detto denaro è ritornata al mittente per il tramite del più efficiente dei suoi corrieri, la mafia. Il resto del denaro non è servito per migliorare i servizi, ma a tamponare le falle di una finanza pubblica locale più vorace dell’aquila che dilania il fegato di Prometeo. A questa e ad altre considerazioni sulla “qualità” della classe politica si può obiettare che i politici non sono tutti incapaci e corrotti e ripetere la solita raccomandazione che “non bisogna fare di tutta l’erba un fascio”. Pur tuttavia, è utile precisare che la responsabilità penale è la sola a essere soggettiva a differenza di quella politica che è collettiva; di conseguenza i politici competenti e onesti, se pur ce ne sono, sono comunque “tutti” coinvolti nella suindicata responsabilità. La riforma del fisco e la questione meridionale sono ancora soltanto “ buone intenzioni sbandierate ai soli fini elettorali”, a esse volutamente non si è data alcuna seria soluzione anche perché coloro che dovrebbero provvedervi sono troppo impegnati a tutelare i vari interessi personali e i privilegi della casta di appartenenza. A tale proposito, è opportuno precisare che ciò che i comuni cittadini chiamano “spreco” è per molti politici “investimento”. Giova osservare però che nulla è più noioso e inutile di un “secolare lamento” al quale sono dedite numerose parti della popolazione del Mezzogiorno più disposte al subire che al fare e a poco vale la scusante che il Sud è stato penalizzato dalla dominazione di Greci, Arabi, Spagnoli e altri non troppo antropologicamente diversi dai precedenti, mentre il Nord ha beneficiato di quella Austroungarica. Inoltre, sarebbe ingiusto attribuire tutte le colpe dell’attuale situazione politica ed economica alle sole classi politiche (elette anche dagli stessi lamentosi meridionalisti) secondo la ben collaudata tecnica dello “scarica barile” che conduce alla conclusione che la colpa è sempre di un altro preferibilmente scelto tra gli assenti; ma è pur vero che un Mezzogiorno abbandonato frena anche lo sviluppo del Nord e ciò dovrebbe fare ben sperare per una “inversione di rotta”. Nell’attesa che questo miracolo si avveri i popoli del Sud non dovrebbero più considerarsi  sottoposti a un destino crudele avallato, secondo la nota visione di Giovanni Verga, da un immobilismo familiare, sociale ed economico al quale un fato impietoso li ha ineluttabilmente costretti sin dalla nascita, ma, forti delle proprie varie risorse, costruire una “riscossa” che parta dalla seguente premessa. Il Mezzogiorno di questa penisola potrà sperare di cambiare solo quando il cambiamento sarà autenticamente voluto e palesemente costruito dalla sua gente perché il “silenzio dei buoni” è sovente più dannoso delle “grida dei cattivi”. Se ciò avverrà, sarà un passo significativo verso la costituzione dell’Italia finalmente unita.

LA PATRIA. La Patria non sempre è la Nazione nella quale casualmente si nasce, ma il luogo dove legalità, solidarietà e speranze sono i pilastri sui quali gli “amici di uno Stato amico” possono liberamente costruire il loro futuro e forgiare il proprio destino.  Fortunati sono coloro per i quali i due posti coincidono.

IL CONFINE E LA FRONTIERA. Il confine è il perimetro di un blocco omogeneo che mostra tutta l’insicurezza derivante dalla necessità di sentirsi protetti. La frontiera è un limite che racchiude una comune identità fondata sull’individualità personale e collettiva con riferimento a categorie aventi per oggetto l’etica, la morale, la cultura, la politica, l’economia e le tradizioni. Alla presenza di una crescente emigrazione raramente seguita da un’auspicabile integrazione sarebbe opportuno che tutti ci ponessimo, anche metaforicamente, la domanda se è più difficile superare gli ostacoli di un confine o quelli di una frontiera.

LE OPINIONI. Cambiare le proprie idee è legittimo perché solo un malinteso concetto di coerenza ci impone a considerarci perennemente vincolati ad un presunto obbligo di fedeltà ai convincimenti già esternati. Pur tuttavia, ogni sopravvenuto cambiamento delle nostre opinioni deve essere sempre avallato da una rigorosa analisi motivazionale senza della quale il “mutar d’avviso” è estemporaneo e inattendibile.

I DELITTI E LE PENE. La disputa tra coloro che sono a favore o contro la pena di morte è tra quelle definibili “senza soluzione di continuità”. Personalmente sono tendenzialmente propenso a schierarmi con i secondi, ma mi considero un fortunato per non essere stato mai chiamato a proporla per chi è colpevole “al di là di ogni ragionevole dubbio” perché, per esempio, colto in flagranza di reato. Devo confessare che in questi casi sarei perplesso se suggerire una pena ancora più pesante di una liberatoria morte e cioè un ergastolo non soggetto a futuri sconti di pena concessi in base a norme spesso costruite su un’eccessiva  indulgenza e sull’assenza della certezza della pena.  Oggi la condanna a morte è in alcuni Paesi comminata per gravissimi crimini quali omicidio e stragi e non più, come in un lontano passato, per lesa maestà, alto tradimento e simili. L’elenco di questi reati era altresì esteso alla stregoneria, all’eresia e alle idee e comportamenti contrastanti con i dogmi e i principi della Chiesa Cattolica. Per detti crimini gli spietati giudici dei tribunali della Santa (?) Inquisizione erano anche dediti a infliggere agli imputati torture finalizzate ad ottenere confessioni, vere o false, che giustificassero un verdetto di morte. Se mi dichiaro agnostico sul tema in argomento, non ho dubbi nell’affermarmi convinto oppositore di quella che definisco la “seconda pena di morte”. Mi riferisco ai casi, rari ma significativi, nei quali il giustiziato viene da morto esposto al pubblico disprezzo secondo una medievale consuetudine che, con deprecabile zelo, è stata ereditata da alcuni fanatici ignoranti che con assurda e crudele scelleratezza hanno esteso la pena di morte perfino a monumenti e siti archeologici patrimonio dell’umanità. Inoltre confermo questo mio convincimento anche nei non infrequenti casi nei quali il pubblico dispregio è fondato su ragioni umanamente condivisibili fino a giustificare pure un desiderio di vendetta ancorché tardivo. In Italia non esiste più la pena di morte, l’ultima fu eseguita in due diverse circostanze, la prima a Giulino, dove il 28/4/1945 furono fucilati “in nome del popolo italiano” alcuni gerarchi fascisti e, secondo una controversa versione dei fatti, Benito Mussolini e, volontariamente o casualmente, Claretta Petacci per la quale non ci sono storiche ragioni che possano giustificarne l’uccisione che, comunque, avvenne. Infatti, non sono ascrivibili all’amante di Mussolini colpe inerenti la persecuzione degli Ebrei Italiani, l’uccisione di molti partigiani e la funesta decisione di entrare in guerra al fianco di Hitler. Pur tuttavia nell’immaginario collettivo la Petacci era colpevole per il vincolo d’amore che la legava al Duce fino al punto di seguirlo consapevolmente pure alla morte. A tale proposito mi chiedo: anche l’amore, ancorché nutrito per una persona ritenuta indegna, è da considerarsi una colpa mortale? No, decisamente no; infatti, per esempio, nessuna pubblica accusa è stata mai sollevata contro la madre del pluriomicida e bandito siciliano Salvatore Giuliano che accompagnandone la bara singhiozzando ripeteva i seguenti non condivisibili aggettivi “Turiddu, figghiu mio santu e buono”. La seconda pena di morte, non ordinata ma tacitamente tollerata, fu inflitta, dopo la loro fucilazione, a sei gerarchi, a Mussolini e alla Petacci il 29/4/1945 a Milano in Piazzale Loreto. Quest’ultima, forse come risposta positiva alla mia precedente domanda, fu privata della biancheria intima che portava sotto la gonna e poi, insieme con gli altri, furono tutti ricondannati, da morti, all’impiccagione a testa in giù. Durante il periodo fascista e quando con la ”liberazione” esso cadde definitivamente, io ero appena un bimbo e quindi non ho esperienze dirette ma solo conoscenze dovute a ricerche e studi su quello che considero un deprecabile “ventennio”. Pur tuttavia sono convinto che una seconda pena di morte non debba essere inflitta in nessun caso poiché la stessa ha radici, motivazioni e scopi sicuramente peggiori di quelli che potrebbero anche giustificare la prima decretata per i viventi. La morte in sé merita rispetto, essa comporta la cessazione di ogni tipo di rapporto con chi è ancora in vita, resta solo, per chi ci crede, il definitivo giudizio di un Essere soprannaturale pietoso o vendicativo. Inoltre le civili legislazioni prevedono che non si può essere condannati due volte per il medesimo reato, secondo il brocardo, antica massima giuridica, il quale contiene il seguente principio del diritto che così recita: “Ne bis in idem”. Se detta norma è in vigore per i vivi, perché non sempre è valida anche per i morti?

 

L’ISTRUZIONE. Il “primo giorno di scuola” dovrebbe non prevederne l’ultimo poiché l’istruzione è un processo senza soluzione di continuità che si evolve durante l’intera vita di ogni individuo.

La voglia di studiare, scoprire, conoscere, imparare (rectius: interiorizzare) ed elevare il proprio livello culturale e intellettuale dovrebbe essere un “piacere” che ci gratifica per tutta la vita.

La conoscenza è senza limiti, essa non può essere per ciascuno di noi compiutamente acquisita, ma ogni tappa di un nuovo apprendimento dovrebbe essere lo stimolo per tentare di raggiungere un successivo traguardo. Lo studio è simile a un cibo che paradossalmente non lenisce la fame, ma la aumenta. Inoltre non è baloccandosi che s’impara, lo studio è propedeutico alla gioia dell’apprendere e alla sofferenza della continua scoperta di quanto vasto è il nostro non-sapere. Non sono certo invidiabili, ma forse beati, i tuttologi confortati dalle loro arroganti certezze e coloro che vivono nell’oscurità dell’ignoranza (uno dei  pilastri della felicità dei poveri di spirito) mai tormentati dal dubbio e serenamente confinati in un tranquillo alveo che, in materia di studio, non conosce sacrifici, confronti e le inevitabili sconfitte inflitte a quanti siamo ininterrottamente iscritti alla “scuola di color che sanno meno di quanto vorrebbero”. A tale proposito mi sovvengono le sagge parole del mio Maestro che, includendomi generosamente nella seguente categoria, soleva dirmi: “Noi intellettuali paghiamo sempre di persona”. E’ anche sulla scia di quest’osservazione che, al fine di incrementare e nobilitare il proprio grado d’istruzione, ritengo sia necessario avere un’intelligente strategia di studio, una costante sete di sapere e la volontà di spingere le proprie conoscenze verso i loro estremi limiti. A conferma delle superiori considerazioni giova ricordare quanto disse Marco Tullio Cicerone: “Ci sono più uomini resi nobili dallo studio di quanto non lo siano dalla natura”.

LA CULTURA E L’INTELLIGENZA. La cultura (dal latino colere “coltivare”) è un “insieme” di saperi, credenze, costumi, opinioni e comportamenti che caratterizzano soggettivamente e collettivamente un determinato gruppo di persone anche in funzione della loro eredità storica. La suindicata concezione è tra le altre (sociologica, tecnologica, pedagogica, etc.) quella antropologica che, a mio parere, più compiutamente definisce detto sostantivo. L’intelligenza (dal latino intelligere “capire”), non ancora universalmente definita probabilmente a causa delle sue svariate forme, può essere identificata, almeno per il genere umano, come un “insieme” di abilità soggettive psichiche e mentali che consentono di meglio tentare di giungere alla “corretta conoscenza” tramite l’uso della ragione. In senso più ampio, l’intelligenza è una “proprietà cognitiva” direttamente proporzionale alla soggettiva capacità di “adattare i propri pensieri e comportamenti all’ambiente circostante” al fine di “fronteggiare e provare a risolvere con successo nuove situazioni”. Le suindicate incomplete definizioni mostrano che cultura e intelligenza non sono sinonimi e tanto meno la prima coincide con la seconda; la più sintetica differenza tra i due “insiemi” evidenzia che la cultura si fonda sul “sapere” mentre l’intelligenza sul “ragionato buon senso”. Purtroppo è diffuso l’errore di considerare una persona colta anche intelligente dimenticando il detto popolare che qualifica molti contadini “scarpe rotte (poca cultura) e cervello fino (molta intelligenza)”. Detto errore assume valori esponenziali se una persona colta si considera, conseguentemente, intelligente. Giova osservare che le suindicate qualità non sono mai totalmente presenti o assenti; infatti, nessuno di noi è compiutamente colto (anche se in un solo campo del sapere) o totalmente idiota (salvo che per gravi patologie). Secondo una parziale verità, colti si diventa e intelligenti si nasce. Se detta affermazione è vera per la cultura, non è del tutto condivisibile per l’intelligenza che può, molto proficuamente, essere coltivata tramite lo sforzo di più adeguatamente riflettere anche sulle possibili “alternative”, di meglio prevedere  gli “sviluppi” e di non fermarsi sempre “alla prima taverna”. Per azzardare un chiarimento basterebbe confrontare un giocatore di scacchi con quello di roulette; il primo non fa una mossa senza avere riflettuto sugli effetti che la stessa avrà su molte delle successive, il secondo si affida al “caso” o, al massimo, sceglie di puntare su quei numeri che, per irrazionali motivi, ritiene essere i più fortunati. Nei casi in cui un’elevata cultura e una notevole intelligenza sono entrambe qualità di un medesimo individuo, si è di fronte a una “rarità” che affascina e imbarazza chi non ne è dotato in pari misura. In tali situazioni è bene dilungarsi a pensare prima di “proferire verbo” e, sovente, è meglio ricorrere a un “intelligente silenzio”. A tale proposito un ottimo consiglio ci viene da Samuel Langhorne Clemens (pen name Mark Twain, scrittore, umorista, aforista e docente Americano) che così recita: “Sometimes it’s better to keep one’s mouth shut risking to appear stupid or ignorant than open it and remove all doubt”. Sommessamente aggiungo che è sempre meglio non fare domande se non si è in grado di capire le risposte. Se io potessi scegliere per me stesso, opterei per essere più intelligente che colto, perché l’intelligenza  è, non da sola, l’incentivo più stimolante che persegue il “nobile” fine di ampliare la propria cultura.

 

 

Esternare i propri convincimenti significa anche avere il coraggio di sottoporsi all’altrui positivo o negativo giudizio, perché ogni pubblica meditazione è un’ulteriore appendice al nostro “biglietto da visita” nel quale all’informazione su “chi” siamo, aggiungiamo quelle molto più significative e rilevanti su “COME” siamo.

Marzo 2018

 

Formazione Professionale

Ho conosciuto recentemente il prof. Ingrassia e desidero condividere le sue considerazioni.

ROTARY CLUB PALERMO CENTROConferenza tenuta dal Prof. Benedetto Remo Ingrassia il 7/02/2018

FORMAZIONE PROFESSIONALE SELEZIONE ATTITUDINALE CONFLITTUALITA’ E NEGOZIAZIONE

La formazione e la selezione sono funzioni manageriali a elevato contenuto strategico poiché tendenti a incrementare il rendimento del personale e con esso la migliore reintegrazione del relativo costo che, com’è noto, è uno dei più controversi e significativi che una azienda sostiene.

Premetto che nella seguente esposizione il termine azienda sarà adoperato superando la nozione teorica e codicistica, poiché è utilizzato nel suo più vasto campo di applicazione, essa pertanto sarà considerata come un’entità economica ove si produce e si lavora; conseguentemente tratterò alcune problematiche inerenti la formazione e la selezione in realtà diverse quali le aziende pubbliche e private, gli studi professionali, la scuola e l’università cercando di cogliere i non pochi denominatori comuni.

La congiunzione “e” posta tra i termini formazione e selezione andrebbe letta usando il prefisso latino “inter” poiché “tra” la formazione e la selezione esiste un interconnesso rapporto di correlazione tale che, in considerazione del comune obiettivo, riesce impossibile delimitare i confini delle due funzioni, salvo fermarsi alla superficiale constatazione che la selezione del personale è la verifica del grado di efficienza della formazione professionale a esso impartita da altri o coltivata da se stessi.

Per quanto io non ami le definizioni perché evocano forme più mnemoniche che elaborative ne azzardo due al fine di  chiarire il mio pensiero quando uso i termini formazione professionale e selezione del personale. Entrambe sono una risorsa delle economie avanzate e in particolare la formazione è “un investimento diretto alla migliore qualificazione del capitale umano” che nella terminologia anglosassone è chiamato “intangible capital” mentre la selezione è “una funzione di scelta tra più persone finalizzata all’assegnazione di una posizione lavorativa per la quale si ritiene adatto un soggetto dotato, almeno sufficientemente, delle seguenti qualità: sapere, sapere fare, sapere essere e sapere divenire intesa quest’ultima quale stimolo rivolto a inseguire le proprie ragionevoli ambizioni”.

Il “sapere” consiste in una buona conoscenza di carattere teorico ed è quindi riferito a discipline quali l’economia, il diritto, l’elettronica, l’anatomia e altre. Vari sono i fattori che incidono sul grado del sapere, prima tra tutte è la cultura sinteticamente intesa come l’insieme delle acquisizioni di conoscenze che ove fossero superficiali diverrebbero più pericolose dell’ignoranza.

Il “sapere fare” è costituito da una buona padronanza di carattere tecnico-professionale ed è quindi connesso alle applicazioni, alle procedure, alle analisi operative, ai risultati strategici e simili. Vari sono i fattori che incidono sul grado del sapere fare, prima tra tutte è l’intelligenza sinteticamente intesa come un insieme di abilità finalizzate al perseguimento di uno scopo tramite l’uso della ragione.

Per quanto riguarda il “sapere essere”, esso s’interconnette con la migliore qualificazione del capitale umano che ho precedentemente indicato quale finalità precipua della formazione. Intendo che i migliori risultati nel proprio lavoro, autonomo o dipendente, non si conseguono solo grazie a un elevato grado di conoscenze teoriche e tecnico-professionali, ma dipendono altresì dai seguenti sette fattori:

  1. Avere la capacità di impiegare ed evidenziare il mix dei propri talenti quali il coraggio, la prudenza, la lungimiranza, la tempestività e l’abilità nell’interiorizzare gli obiettivi del contesto in cui si lavora, divenendone parte integrante.

  2. Avere uno spiccato senso di tolleranza alla fisiologica conflittualità inevitabile nei rapporti plurimi.

  3. Avere buone capacità nella difficile “arte del negoziare”.

  4. Essere portatore di un’immagine dai forti contenuti di rigore professionale al fine di guadagnare la propria e l’altrui considerazione e apprezzamento.

  5. Avere condivisibili ragioni per coltivare un’autostima non narcisista.

  6. Avere una forte consapevolezza del proprio ruolo professionale e viverlo con lealtà verso i superiori, i colleghi e i subalterni.

  7. Essere disponibile a nobilmente servire gli altri, collaboratori o discepoli che siano, in misura direttamente proporzionale alla differenza gerarchica o culturale.

A tale proposito giova osservare che quando due culture di grado diverso s’incontrano è sempre quella più elevata che dovrebbe scendere al livello inferiore poiché è ingenuo pretendere il contrario e se ciò accadesse ogni tipo di confronto sarebbe sterile e perfino inutile. A mio sommesso avviso le sopra indicate sono solo alcune delle tematiche di riflessione e analisi proposte dalla formazione e oggetto di verifica da parte della selezione che, se riferita al sapere essere, è più compiutamente chiamata “selezione attitudinale” finalizzata a verificare il grado quantitativo e il valore qualitativo delle attitudini ad assumere un determinato ruolo. Infatti, per esempio, un eccellente ricercatore in una qualunque disciplina non è conseguentemente un buon insegnante sul quale gravano gli oneri del confronto con gli allievi ai quali porgere nel modo più adatto le proprie conoscenze. Inoltre, non è l’obbedienza l’obbiettivo perseguito da un docente, ma la ricerca del confronto con i discepoli e, ove possibile, della condivisione con gli insegnamenti loro impartiti perché la cultura così come la democrazia non possono essere imposte. Allo stesso modo, l’antico e il moderno non prescritto giuramento di Ippocrate fanno riferimento a norme etiche di natura morale, comportamentale e attitudinale e non alle scontate competenze nel campo della medicina. Pur tuttavia il pretendere obbedienza non deve essere stigmatizzato in assoluto. Infatti, per esempio, un imprenditore titolare di un’azienda di qualunque dimensione avrà l’interesse e il dovere di ascoltare e valutare i pareri dei suoi più capaci collaboratori e il diritto di chiedere loro di uniformarsi alle sue scelte, ancorché non coincidenti con quelle di questi ultimi, per rispetto della gerarchia e, principalmente, perché solo su di lui grava il “rischio generale d’impresa”.

Da quanto sopra evidenziato, si evince l’esistenza di un’altra funzione costituita dall’”addestramento” tramite il quale s’imparano teorie e tecniche che la selezione verifica con l’indagine sul sapere e sul sapere fare, mentre attraverso la formazione s’interiorizzano comportamenti e consapevolezze che la selezione attitudinale verifica e valuta con l’indagine sul sapere essere. Non a caso ho accoppiato il termine addestramento con il verbo imparare e il termine formazione con il verbo interiorizzare. Non ritengo necessario soffermarmi sull’intimo significato da attribuire ai suindicati verbi e al prescelto accoppiamento.

Essere un top manager o un imprenditore o un libero professionista o un docente non dovrebbe essere una qualifica e ancor meno un mestiere, ma un modo di concepire la propria presenza professionale nella società che ci circonda ed è altresì il risultato della propria volontà e determinazione perché un lavoro si sceglie e se solo si accetta o, peggio, si subisce è per comprensibili necessità imposte da uno stato di bisogno che in precarie condizioni economiche riduce il grado di preferenza. In tema di volontà e determinazione giova citare Lee Iacocca il rifondatore della Chrysler che sapeva dove voleva arrivare ed è anche per questo che c’è arrivato e ancora Rita Hauser una tra le più famose donne avvocato d’America che soleva dire: “Dovete essere decisi a portare fino in fondo ciò che intraprendete poiché la forza della volontà nel volere superare gli ostacoli è una delle risorse umane più importante per arrivare al successo”. Traggo spunto da queste parole per soffermarmi sull’ultima di esse il “successo” traguardo di tante speranze.

Essere un uomo di successo nel proprio lavoro non comporta necessariamente diventare, ad esempio, un magnate come Bill Gates e fondare un impero economico simile alla Microsoft, ma significa avere la consapevolezza e il riconoscimento di essere utile nello svolgimento delle proprie mansioni avendo interiorizzato le finalità proposte dalla formazione professionale che, ripeto, può non solo essere inculcata, ma costituire altresì il risultato del confronto con altre esperienze tramite le “analisi di gruppo” ovvero realizzarsi attraverso solitarie riflessioni. Certo è che per diventare un uomo di successo un pizzico di fortuna non guasta, anzi esso può essere determinante se si assume nei confronti della dea bendata un atteggiamento non passivo di disperata attesa, ma propositivo e preparato a cogliere tutto il sapore del sospirato bacio. Sul rapporto che ogni essere umano può istaurare con la fortuna Nicolò Machiavelli scrisse: “Senza la virtù l’occasione sarebbe venuta invano” ed io sommessamente aggiungo che nel proprio lavoro la fortuna consiste anche nel sapere cogliere le fuggevoli occasioni di produrre più del necessario o di quanto ci è stato richiesto nella consapevolezza che la fortuna raramente si trova, ma intenzionalmente si cerca. Le presenti note necessitano anche di un cenno sugli errori prodotti da una cattiva formazione e da una peggiore selezione. Il formatore, pur non perseguendo finalità tendenti a ottenere una qualunque forma di “captatio benevolentiae”, rende un servizio di completa disponibilità a favore del formando, non assume atteggiamenti cattedratici da “barone” di funesta memoria, ma propone riflessioni e non insegna verità dogmatiche. La consapevolezza del ruolo affidatogli lo induce ad assolverlo con la saggezza di chi è più tormentato dal dubbio che confortato dalla certezza, usa con discrezione gli strumenti professionali che gli consentono di trattare anche argomenti di natura psicologica e comportamentale, ha sempre presenti i motivi per i quali il processo di formazione si realizza in quel particolare contesto di lavoro e/o di studio. Ne consegue che la vera formazione professionale non abbisogna di un particolare cerimoniale, come quello in uso per una conferenza, poiché essa è un “processo senza soluzione di continuità” del quale chi occupa una superiore posizione gerarchica o culturale deve costantemente farsi carico. Quest’ultimo, che possiamo identificare con il generico termine di “capo”, deve vivere il rapporto di lavoro e di studio con se stesso e con i propri collaboratori con l’atteggiamento di chi non assegna compiti, ma affida responsabilità, anche se ciò comporta un totale coinvolgimento personale e il sostenimento d’impegni non indifferenti.

Nello svolgimento di una mansione, inclusa quella di capo, chi ne è il titolare, assume un comportamento influenzato dal “proprio essere” e da numerosi fattori esterni tra i quali anche il tipo di percorso formativo al quale è stato sottoposto. Un’interessante ricerca ha classificato i seguenti cinque tipi di persone che svolgono una funzione manageriale:

  1. Il progettista non ammette alternative diverse da quella secondo la quale “le cose si fanno bene o non si fanno”. Sovente un eccesso di perfezionismo e inflessibilità lo costringe a lavorare da solo e, nei casi estremi, rischia di diventare accentratore e stacanovista.

  2. L’aiutante è propenso a istaurare sempre buoni rapporti grazie anche alla sua capacità di ascolto. Antepone i bisogni degli altri ai propri, evita la conflittualità e anche per questo è giudicato, non di rado a ben ragione, privo di energia.

  3. Il pensatore ama il “problem solving” e quindi tende a collezionare dati che interconnette tra loro e costituiscono oggetto di lunghe riflessioni propedeutiche a ogni decisione. Nei casi estremi il suo lavoro è frenato dall’”effetto biblioteca” che comporta il rischio di un’eccessiva accumulazione d’informazioni non tutte sempre utili.

  4. L’esploratore è un creativo entusiasta del proprio lavoro e solo su di esso è focalizzato. Svolge la mansione assegnatagli con energia e passione a danno di una modesta capacità di ascolto. Le sue attitudini professionali si riducono se deve affrontare lavori di sgradita routine.

  5. Lo sfidante è costantemente orientato a conseguire il migliore risultato. Dotato di energia e capacità strategiche, è un freddo razionalista poco disposto all’ascolto e al confronto perché ha già le sue idee che aprioristicamente ritiene essere le migliori.

Il selezionatore è un giudice che, come scrisse Leonardo Sciascia riferendosi a quest’ultimo, “non deve godere del potere affidatogli, ma soffrirne” a lui è anche riservato il non facile compito di ammettere le proprie debolezze e emotività proprio al fine di controllarle, egli è un essere umano come l’esaminando che gli sta davanti ed ogni dichiarazione di fredda capacità di giudizio scevra da umani e, spesso, fragili sentimenti sarebbe falsa, ingenua e perfino ridicola. Nella selezione svolta in seno a un’entità economica pubblica o privata che sia, il fine è quello di scegliere tra un certo numero di candidati colui o coloro a cui affidare un ben determinato e chiaramente definito lavoro. La bontà di giudizio del selezionatore si fonda sulla sua capacità di sapere coniugare i predeterminati obiettivi con le risorse umane disponibili, l’errore in cui può incorrere è, secondo Marvin Dunette docente di Psicologia all’Università del Minnesota, quello di preferire un candidato “falsamente positivo” o “falsamente negativo”. Il primo tipo di errore consiste nell’assegnare la posizione lavorativa a chi nel tempo si dimostra a essa inadatto e il secondo tipo di errore consiste nel non avere attribuito la posizione lavorativa a chi ne aveva merito.

Coloro che come me hanno selezionato un più che significativo numero di candidati conservano nel proprio armadio alcuni “cadaveri” falsamente positivi e/o falsamente negativi. Se ciò è ascrivibile a lieve colpa non c’è di che vergognarsi per gli sbagli di valutazione commessi, ma se le cause sono di natura dolosa meglio sarebbe stato non accettare incarichi che non si è in grado di assolvere con la dovuta competenza e dignità.

Durante la precedente esposizione sul sapere essere ho accennato alla fisiologica conflittualità scaturente dal plurimo confronto di interessi diversi, ma prima di affrontare l’argomento nel suo complesso desidero fare un breve accenno sui non rari casi  di “conflittualità con se stessi” che nelle forme più gravi è una patologia di origine depressiva. Più frequentemente il citato conflitto è causato dallo scontro tra “ragione e sentimento” e, conseguentemente, si è dibattuti sulla necessità di fare prevalere uno dei due prima di assumere la decisione finale a seguito di una tra le più travagliate negoziazioni. Giova osservare che il conflitto d’interessi non si manifesta solo con se stessi, con i propri simili e nelle aziende, ma anche in tutte le aggregazioni sociali compresa la famiglia in cui ciascuna parte, intesa come centro di interessi di un solo soggetto o comuni a più individui, persegue scopi diversi da quelli che le altre parti intendono conseguire. Ogni individuo esprime un’originalità assoluta nel senso che egli è diverso da tutti gli altri e differenti sono gli interessi che animano i suoi comportamenti. Se detta diversità è totale non può esserci né rapporto né conflitto con gli altri esseri umani, ma se la diversità è parziale nasce un rapporto sovente complesso con la conseguenza che la conflittualità è inevitabile. Essa può essere considerata come l’interazione tra parti i cui interessi sono interdipendenti e ciascuna parte percepisce la soddisfazione degli interessi altrui come preclusiva dei propri. E’ particolarmente interessante analizzare come le parti “vivono” la conflittualità e “tollerano” la diversità. Se la conflittualità è vissuta come un fenomeno patologico intervengono i seguenti due elementi: il rifiuto della diversità e il consenso è preteso poiché considerato un punto di partenza. Ne consegue che il conflitto è un rapporto antagonista in cui le parti lottano per ottenere il massimo risultato. Con tali premesse si perviene alla “rissa” che si affronta con il solo ausilio delle proprie forze fisiche e fonetiche nel senso che spesso il consenso si cerca gridando più forte. Se la conflittualità è vissuta come un fenomeno  fisiologico intervengono i seguenti due elementi: l’accordo è cercato poiché considerato un punto di arrivo. Ne consegue che il conflitto è una fonte di energia che consente alle parti di ottenere congiuntamente risultati migliori di quelli che avrebbero potuto conseguire singolarmente. Con tali premesse si perviene alla “negoziazione” intesa come un processo in cui due o più parti interdipendenti, poiché portatrici d’interessi comuni e diversi, cercano di incontrarsi al fine di conseguire un obiettivo finale tramite il raggiungimento di un accordo di mutua soddisfazione. Il campo negoziale entro cui si “muovono” le parti può essere considerato come un segmento che, come tale, contiene infiniti punti dei quali gli estremi sono gli “interessi in gioco” e le “alternative all’accordo”. L’efficacia della negoziazione dipende prevalentemente dalla capacità di ascolto, dall’abilità nel gestire la tensione e dalla ricerca di un “valore aggiunto” derivante da ciascuna rivendicazione. Nella negoziazione entrano in competizione due tipi di comportamento: quello “creativo” del citato valore aggiunto costituito dalla percentuale dei propri interessi condivisi dalla controparte e quello “rivendicativo” dei soli propri interessi. Da qui nasce il “dilemma del negoziatore” tormentato dal dovere scegliere “quando, come e se” privilegiare uno dei suindicati comportamenti a scapito dell’altro. A maggiore chiarimento valga il seguente esempio.

Si supponga che due parti contendenti indicate come A e B assumano in sede di negoziazione uno dei possibili seguenti quattro comportamenti:

1° A e B “creano”. Il risultato della negoziazione sarà buono per entrambi.

2° A “crea” e B “rivendica”. Il risultato della negoziazione sarà ottimo per A e pessimo per B.

3° A “rivendica” e B “crea”. Il risultato della negoziazione sarà pessimo per A e ottimo per B.

4° A e B “rivendicano”. Il risultato della negoziazione sarà mediocre per entrambi.

Nel rapporto negoziale si realizza un “gioco” tra creazione e rivendicazione che ha trovato scientifica inclusione nella ben nota “teoria dei giochi”. Era il 1944 quando il Prof. John Von Neumann dell’Università di Princeton diede con il suo libro intitolato “Theory of games and economic behaviour” carattere scientifico, matematico ed econometrico alla teoria dei giochi. E ancora nel 1994 fu conferito il premio Nobel ai seguenti tre matematici cultori del “Game Theory”, i Professori John Nash dell’Università di Princeton, John Harsanyi dell’Università di Berkley e Reinhard Selter dell’Università di Bonn. Il merito dei tre scienziati consiste, tra l’altro, nell’avere elaborato un modello matematico dei soli due possibili tipi di gioco strategico che sono: il “cooperativo” in cui i giocatori contribuiscono insieme al conseguimento del migliore risultato e il “non cooperativo” in cui ogni giocatore pone in essere una strategia individuale finalizzata al solo proprio scopo. Ad esempio, il diffondersi del fenomeno delle corruzioni è assimilabile a un gioco cooperativo mentre quello delle tangenti è paragonabile a un gioco non cooperativo. In ogni caso, l’equilibrio di un gioco è, secondo la definizione di John Nash, “la strategia con la quale ogni giocatore massimizza il proprio risultato prevedendo le strategie degli altri giocatori”. Un tipico esempio è dato dal seguente “dilemma del prigioniero”. In una città americana un supermarket subì una rapina effettuata da ignoti che riuscirono a dileguarsi prima che giungesse la polizia. A seguito dell’immediato rastrellamento quest’ultima fermò due  pregiudicati, che chiamerò A e B, già condannati per rapina e che erano armati di pistola pur non avendo il porto d’armi. Entrambi furono portati dinanzi al giudice che, desideroso di avere notizie sulla banda di loro presunta appartenenza, disse ai due sospettati: “Quattro sono le ipotesi riguardanti l’imputazione contro di voi; domani dopo una notte di isolamento che non vi consentirà di comunicare tra voi, mi direte quale incriminazione e relativa condanna scegliete in conseguenza del fatto che confesserete o meno quanto mi interessa conoscere sulla banda a cui credo appartenete.

1° ipotesi. Se entrambi tacete, sarete incriminati per abusivo porto d’armi e condannati a un anno di reclusione.

2° ipotesi. Se A tace e B confessa, B è rilasciato e A è incriminato per rapina a mano armata e condannato a otto anni di reclusione.

3° ipotesi. Se B tace e A confessa, A è rilasciato e B è incriminato per rapina a mano armata e condannato a otto anni di reclusione.

4° ipotesi. Se entrambi confessate, sarete imputati per semplice rapina e condannati a quattro anni di reclusione”.

Dopo una notte insonne i due rapinatori scartarono l’ipotesi della totale reciproca fiducia di cui alla 1° ipotesi, nessuno di loro corse il rischio di avvantaggiare l’altro a proprio danno come previsto nelle ipotesi 2° e 3° e quindi scelsero la 4° optando entrambi per una completa confessione. Il giudice ebbe tutte le informazioni che desiderava e l’intera banda fu sgominata. Non è importante sapere se la storia che ho raccontato è vera o immaginaria e se le sanzioni  penali sono corrette o meno, è invece significativo notare come il giudice “giocò le proprie carte” attivando una strategia efficace e tutta rivolta a proprio vantaggio.

Il dilemma del prigioniero pone in evidenza come la negoziazione si colloca in uno degli infiniti punti di un intervallo lineare i cui estremi sono: il potere e la dipendenza. Il potere di una parte deriva anche dalla dipendenza della controparte e viceversa, esso si manifesta attraverso una o più delle seguenti tre categorie: competenza, autorità e terrorismo. La competenza dipende dal grado di conoscenza e cultura, mentre l’autorità e il terrorismo dal grado gerarchico e dalle minacce. Nel suddetto campo negoziale il buon negoziatore cerca di capire cosa la controparte “veramente” vuole che non sempre coincide con quanto dichiara di volere. I professionisti della negoziazione sono essenzialmente di due tipi: positional bargaining e interest bargaining. I primi contrattano e assumono predeterminate posizioni, formulano le loro richieste e valutano il successo in conformità a quanto è accettato dalla controparte, conseguentemente la negoziazione si fonda su un’unica alternativa: “o vinco io o vinci tu”. I secondi contrattano interessi e considerano fondamentale l’accertamento dei reali desideri della controparte per confrontarli con i propri e cercare convenienti soluzioni alternative finalizzate alla reciproca soddisfazione. Il seguente esempio potrà meglio chiarire la differenza tra i due suindicati tipi di mediatore.

Un imprenditore riceve, con poco entusiasmo, da un suo dipendente la richiesta di un aumento di stipendio e, conseguentemente, deve negoziare detta istanza con la propria riluttanza ad accettarla.

Per l’identificazione dei due contendenti userò gli acronimi IM per l’imprenditore mediatore e DR per il dipendente richiedente al fine di semplificare l’esame dei possibili risultati nelle ipotesi che IM rientri in ciascuno dei due tipi di mediatore sopra indicati:

1° caso: IM è un “positional bargaining”. Egli penserà che DR chiede un aumento di X+Y al fine di ottenere almeno X e, pertanto, per reazione uguale e contraria, non proporrà un aumento inferiore a quello richiesto, bensì paventerà una possibile riduzione dello stipendio giustificandola con un vero o presumibile calo del volume degli affari e simili eventi negativi. In questi casi la contrattazione basata solo sulla difesa delle proprie posizioni conduce al seguente obiettivo: “tanto peggio per te tanto meglio per me”.

2° caso: IM è un “interest bargaining”. Egli cercherà di capire perché DR chiede un aumento di stipendio e, per esempio, scopre che la richiesta deriva dalla necessità di avere una maggiore disponibilità di denaro per fronteggiare sopravvenute temporanee o durature necessità familiari. Sulla scorta di questa preziosa informazione IM proporrà a DR, per esempio, uno o più dei seguenti incentivi tutti finalizzati a una reciproca soddisfazione: fare straordinari retribuiti, ricevere un premio se la produzione supera un predeterminato livello, ottenere una provvigione per il procacciamento di nuovi affari e simili. In questi casi la contrattazione basata sulla ricerca dei comuni interessi conduce al seguente obiettivo: “tanto meglio per te tanto meglio per me”.

Per quanto paradossale possa sembrare la migliore negoziazione può anche essere “la resa incondizionata” come nel seguente esempio. Alla Columbia University quando il Generale Dwight  Eisenhower alla fine della seconda guerra mondiale ne era il Presidente, gli studenti per raggiungere un campus evitavano l’apposito marciapiede calpestando l’erba del prato circostante. A nulla servirono divieti e recinzioni, gli studenti insistevano tanto da avere formato sul prato un vero sentiero sul quale l’erba non poteva più crescere.

Al fine di risolvere il problema fu interpellato Eisenhower che propose di costruire un nuovo marciapiede dove si era formato il sentiero e piantare l’erba al posto dell’inutilizzato marciapiede. Il saggio Ike implicitamente ammise che studenti avevano avuto un’idea alternativa migliore di quella originaria del progettista e quindi l’unica possibile mediazione soddisfacente per tutti era accettare la volontà manifestata dagli universitari arrendendosi incondizionatamente.

Una minoranza di persone, che è meglio evitare, è soddisfatta dal solo fatto di essere in conflitto, la maggioranza invece preferisce risolvere il conflitto anche a costo di perdere qualcosa pur di guadagnarne un’altra. E’ su questa considerazione che si fonda la strategia del “mini-max” secondo la quale prima di iniziare una negoziazione è necessario porsi queste fondamentali domande:

  • Quale è il minimo che posso accettare?

  • Quale è il massimo che posso chiedere?

  • Quale è il minimo che posso accordare?

  • Quale è il massimo che posso concedere?

Queste quattro domande esprimono il concetto base della strategia del mini-max che è: “Best alternative to a negotiated agreement. La migliore alternativa verso la negoziazione di un accordo”.

Nel gioco negoziale si possono assumere due tipi di posizioni: “dure” e “morbide”. Se si assume una posizione dura è difficile modificarla perché il “proprio io” si identifica con essa e ogni alternativa viene vissuta come il “perdere la faccia”. A maggiore chiarimento valga il seguente esempio. Durante la presidenza Kennedy tra L’America e la Russia sorse l’interesse a compiere reciproche ispezioni territoriali su eventi sismici sospetti. L’America ne propose dieci e la Russia ne accettò tre, ciascuno dei due Paesi si arroccò sulle proprie posizioni e, cosa altrettanto grave, nessuno indagò se l’ispezione consisteva nel fatto che un perito avesse dovuto dare una formale sbirciatina per un giorno o se cento scienziati avrebbero dovuto fare analisi di lungo periodo. Il risultato fu che la trattativa si arenò e, per quanto i due Paesi fossero seriamente interessati alla reciproca ispezione, l’accordo non fu trovato. Se si assume una posizione morbida, il gioco negoziale tende a enfatizzare l’importanza di costruire e mantenere il rapporto. Sovente ciascuna delle parti fa a gara per essere più generosa dell’altra con la conseguenza che il raggiungimento dell’accordo è tanto probabile quanto il risultato può essere pessimo come nel caso dei genitori divorziati che gareggiano tra loro sul numero dei regali da fare ai sempre più viziati figli. E ancora, in uno dei quaranta racconti di O. Herry, pseudonimo dello scrittore americano William Sydney Porter, si narra di una coppia di sposi poveri ma innamorati; per tale sentimento la moglie vende la propria lunga chioma per comprare una catena per l’orologio del marito che, ignaro dell’iniziativa della coniuge, vende il proprio orologio per comprare alcuni pettini destinati a reggere la folta capigliatura dell’amata sposa. In entrambi i precedenti esempi, il fallimento della negoziazione è dipeso dall’assenza di “analisi oggettiva” del problema con la conseguenza che l’emotività ha sostituito la razionalità fino al punto di non essere capaci a intravedere possibili alternative quali, per gli esempi proposti, indagare sul tipo di ispezione e accettare il fatto che, specialmente per i meno abbienti, è meglio andare insieme a comprare i regali perché mancherà la sorpresa, ma almeno si è certi di non sbagliare. Sull’argomento Roger Fisher e William Ury Professori dell’Università di Harvard suggeriscono di scindere le persone dal problema, concentrarsi sugli interessi e non sulle posizioni, inventare soluzioni vantaggiose per tutti e insistere su criteri oggettivi anche al fine di incrementare nel corso del rapporto conflittuale la percentuale delle proprie ragioni rispetto a quella dei propri torti. A tale proposito giova ricordare il seguente passo dedicato dal Manzoni nel suo romanzo storico a giustificazione, sia pure parziale, della vigliaccheria di Don Abbondio sempre schierato dalla parte del più forte: “A chi, messosi a sostenere le sue ragioni contro un potente, rimaneva col capo rotto, Don Abbondio sapeva trovar sempre qualche torto; cosa non difficile, perché la ragione e il torto non si dividono mai con un taglio così netto che una parte abbia soltanto dell’una o dell’altro”. In realtà, nelle istanze dei protagonisti di un rapporto conflittuale convivono percentuali diverse di ragione e di torto e una saggia negoziazione deve essere condotta sostenendo le proprie ragioni senza escludere l’ipotesi di avere torto. Tale comportamento prevede un’indispensabile “capacità di ascolto e tolleranza” perché i “sordi tuttologi” che per vocazione e rachitica intelligenza assumono il ruolo di eterni predicatori illusi di essere i titolari di un’unica verità, finiscono inesorabilmente con l’avere un solo uditore: se stessi.