Ho conosciuto recentemente il prof. Ingrassia e desidero condividere le sue considerazioni.
ROTARY CLUB PALERMO CENTRO – Conferenza tenuta dal Prof. Benedetto Remo Ingrassia il 7/02/2018
FORMAZIONE PROFESSIONALE SELEZIONE ATTITUDINALE CONFLITTUALITA’ E NEGOZIAZIONE
La formazione e la selezione sono funzioni manageriali a elevato contenuto strategico poiché tendenti a incrementare il rendimento del personale e con esso la migliore reintegrazione del relativo costo che, com’è noto, è uno dei più controversi e significativi che una azienda sostiene.
Premetto che nella seguente esposizione il termine azienda sarà adoperato superando la nozione teorica e codicistica, poiché è utilizzato nel suo più vasto campo di applicazione, essa pertanto sarà considerata come un’entità economica ove si produce e si lavora; conseguentemente tratterò alcune problematiche inerenti la formazione e la selezione in realtà diverse quali le aziende pubbliche e private, gli studi professionali, la scuola e l’università cercando di cogliere i non pochi denominatori comuni.
La congiunzione “e” posta tra i termini formazione e selezione andrebbe letta usando il prefisso latino “inter” poiché “tra” la formazione e la selezione esiste un interconnesso rapporto di correlazione tale che, in considerazione del comune obiettivo, riesce impossibile delimitare i confini delle due funzioni, salvo fermarsi alla superficiale constatazione che la selezione del personale è la verifica del grado di efficienza della formazione professionale a esso impartita da altri o coltivata da se stessi.
Per quanto io non ami le definizioni perché evocano forme più mnemoniche che elaborative ne azzardo due al fine di chiarire il mio pensiero quando uso i termini formazione professionale e selezione del personale. Entrambe sono una risorsa delle economie avanzate e in particolare la formazione è “un investimento diretto alla migliore qualificazione del capitale umano” che nella terminologia anglosassone è chiamato “intangible capital” mentre la selezione è “una funzione di scelta tra più persone finalizzata all’assegnazione di una posizione lavorativa per la quale si ritiene adatto un soggetto dotato, almeno sufficientemente, delle seguenti qualità: sapere, sapere fare, sapere essere e sapere divenire intesa quest’ultima quale stimolo rivolto a inseguire le proprie ragionevoli ambizioni”.
Il “sapere” consiste in una buona conoscenza di carattere teorico ed è quindi riferito a discipline quali l’economia, il diritto, l’elettronica, l’anatomia e altre. Vari sono i fattori che incidono sul grado del sapere, prima tra tutte è la cultura sinteticamente intesa come l’insieme delle acquisizioni di conoscenze che ove fossero superficiali diverrebbero più pericolose dell’ignoranza.
Il “sapere fare” è costituito da una buona padronanza di carattere tecnico-professionale ed è quindi connesso alle applicazioni, alle procedure, alle analisi operative, ai risultati strategici e simili. Vari sono i fattori che incidono sul grado del sapere fare, prima tra tutte è l’intelligenza sinteticamente intesa come un insieme di abilità finalizzate al perseguimento di uno scopo tramite l’uso della ragione.
Per quanto riguarda il “sapere essere”, esso s’interconnette con la migliore qualificazione del capitale umano che ho precedentemente indicato quale finalità precipua della formazione. Intendo che i migliori risultati nel proprio lavoro, autonomo o dipendente, non si conseguono solo grazie a un elevato grado di conoscenze teoriche e tecnico-professionali, ma dipendono altresì dai seguenti sette fattori:
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Avere la capacità di impiegare ed evidenziare il mix dei propri talenti quali il coraggio, la prudenza, la lungimiranza, la tempestività e l’abilità nell’interiorizzare gli obiettivi del contesto in cui si lavora, divenendone parte integrante.
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Avere uno spiccato senso di tolleranza alla fisiologica conflittualità inevitabile nei rapporti plurimi.
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Avere buone capacità nella difficile “arte del negoziare”.
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Essere portatore di un’immagine dai forti contenuti di rigore professionale al fine di guadagnare la propria e l’altrui considerazione e apprezzamento.
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Avere condivisibili ragioni per coltivare un’autostima non narcisista.
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Avere una forte consapevolezza del proprio ruolo professionale e viverlo con lealtà verso i superiori, i colleghi e i subalterni.
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Essere disponibile a nobilmente servire gli altri, collaboratori o discepoli che siano, in misura direttamente proporzionale alla differenza gerarchica o culturale.
A tale proposito giova osservare che quando due culture di grado diverso s’incontrano è sempre quella più elevata che dovrebbe scendere al livello inferiore poiché è ingenuo pretendere il contrario e se ciò accadesse ogni tipo di confronto sarebbe sterile e perfino inutile. A mio sommesso avviso le sopra indicate sono solo alcune delle tematiche di riflessione e analisi proposte dalla formazione e oggetto di verifica da parte della selezione che, se riferita al sapere essere, è più compiutamente chiamata “selezione attitudinale” finalizzata a verificare il grado quantitativo e il valore qualitativo delle attitudini ad assumere un determinato ruolo. Infatti, per esempio, un eccellente ricercatore in una qualunque disciplina non è conseguentemente un buon insegnante sul quale gravano gli oneri del confronto con gli allievi ai quali porgere nel modo più adatto le proprie conoscenze. Inoltre, non è l’obbedienza l’obbiettivo perseguito da un docente, ma la ricerca del confronto con i discepoli e, ove possibile, della condivisione con gli insegnamenti loro impartiti perché la cultura così come la democrazia non possono essere imposte. Allo stesso modo, l’antico e il moderno non prescritto giuramento di Ippocrate fanno riferimento a norme etiche di natura morale, comportamentale e attitudinale e non alle scontate competenze nel campo della medicina. Pur tuttavia il pretendere obbedienza non deve essere stigmatizzato in assoluto. Infatti, per esempio, un imprenditore titolare di un’azienda di qualunque dimensione avrà l’interesse e il dovere di ascoltare e valutare i pareri dei suoi più capaci collaboratori e il diritto di chiedere loro di uniformarsi alle sue scelte, ancorché non coincidenti con quelle di questi ultimi, per rispetto della gerarchia e, principalmente, perché solo su di lui grava il “rischio generale d’impresa”.
Da quanto sopra evidenziato, si evince l’esistenza di un’altra funzione costituita dall’”addestramento” tramite il quale s’imparano teorie e tecniche che la selezione verifica con l’indagine sul sapere e sul sapere fare, mentre attraverso la formazione s’interiorizzano comportamenti e consapevolezze che la selezione attitudinale verifica e valuta con l’indagine sul sapere essere. Non a caso ho accoppiato il termine addestramento con il verbo imparare e il termine formazione con il verbo interiorizzare. Non ritengo necessario soffermarmi sull’intimo significato da attribuire ai suindicati verbi e al prescelto accoppiamento.
Essere un top manager o un imprenditore o un libero professionista o un docente non dovrebbe essere una qualifica e ancor meno un mestiere, ma un modo di concepire la propria presenza professionale nella società che ci circonda ed è altresì il risultato della propria volontà e determinazione perché un lavoro si sceglie e se solo si accetta o, peggio, si subisce è per comprensibili necessità imposte da uno stato di bisogno che in precarie condizioni economiche riduce il grado di preferenza. In tema di volontà e determinazione giova citare Lee Iacocca il rifondatore della Chrysler che sapeva dove voleva arrivare ed è anche per questo che c’è arrivato e ancora Rita Hauser una tra le più famose donne avvocato d’America che soleva dire: “Dovete essere decisi a portare fino in fondo ciò che intraprendete poiché la forza della volontà nel volere superare gli ostacoli è una delle risorse umane più importante per arrivare al successo”. Traggo spunto da queste parole per soffermarmi sull’ultima di esse il “successo” traguardo di tante speranze.
Essere un uomo di successo nel proprio lavoro non comporta necessariamente diventare, ad esempio, un magnate come Bill Gates e fondare un impero economico simile alla Microsoft, ma significa avere la consapevolezza e il riconoscimento di essere utile nello svolgimento delle proprie mansioni avendo interiorizzato le finalità proposte dalla formazione professionale che, ripeto, può non solo essere inculcata, ma costituire altresì il risultato del confronto con altre esperienze tramite le “analisi di gruppo” ovvero realizzarsi attraverso solitarie riflessioni. Certo è che per diventare un uomo di successo un pizzico di fortuna non guasta, anzi esso può essere determinante se si assume nei confronti della dea bendata un atteggiamento non passivo di disperata attesa, ma propositivo e preparato a cogliere tutto il sapore del sospirato bacio. Sul rapporto che ogni essere umano può istaurare con la fortuna Nicolò Machiavelli scrisse: “Senza la virtù l’occasione sarebbe venuta invano” ed io sommessamente aggiungo che nel proprio lavoro la fortuna consiste anche nel sapere cogliere le fuggevoli occasioni di produrre più del necessario o di quanto ci è stato richiesto nella consapevolezza che la fortuna raramente si trova, ma intenzionalmente si cerca. Le presenti note necessitano anche di un cenno sugli errori prodotti da una cattiva formazione e da una peggiore selezione. Il formatore, pur non perseguendo finalità tendenti a ottenere una qualunque forma di “captatio benevolentiae”, rende un servizio di completa disponibilità a favore del formando, non assume atteggiamenti cattedratici da “barone” di funesta memoria, ma propone riflessioni e non insegna verità dogmatiche. La consapevolezza del ruolo affidatogli lo induce ad assolverlo con la saggezza di chi è più tormentato dal dubbio che confortato dalla certezza, usa con discrezione gli strumenti professionali che gli consentono di trattare anche argomenti di natura psicologica e comportamentale, ha sempre presenti i motivi per i quali il processo di formazione si realizza in quel particolare contesto di lavoro e/o di studio. Ne consegue che la vera formazione professionale non abbisogna di un particolare cerimoniale, come quello in uso per una conferenza, poiché essa è un “processo senza soluzione di continuità” del quale chi occupa una superiore posizione gerarchica o culturale deve costantemente farsi carico. Quest’ultimo, che possiamo identificare con il generico termine di “capo”, deve vivere il rapporto di lavoro e di studio con se stesso e con i propri collaboratori con l’atteggiamento di chi non assegna compiti, ma affida responsabilità, anche se ciò comporta un totale coinvolgimento personale e il sostenimento d’impegni non indifferenti.
Nello svolgimento di una mansione, inclusa quella di capo, chi ne è il titolare, assume un comportamento influenzato dal “proprio essere” e da numerosi fattori esterni tra i quali anche il tipo di percorso formativo al quale è stato sottoposto. Un’interessante ricerca ha classificato i seguenti cinque tipi di persone che svolgono una funzione manageriale:
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Il progettista non ammette alternative diverse da quella secondo la quale “le cose si fanno bene o non si fanno”. Sovente un eccesso di perfezionismo e inflessibilità lo costringe a lavorare da solo e, nei casi estremi, rischia di diventare accentratore e stacanovista.
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L’aiutante è propenso a istaurare sempre buoni rapporti grazie anche alla sua capacità di ascolto. Antepone i bisogni degli altri ai propri, evita la conflittualità e anche per questo è giudicato, non di rado a ben ragione, privo di energia.
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Il pensatore ama il “problem solving” e quindi tende a collezionare dati che interconnette tra loro e costituiscono oggetto di lunghe riflessioni propedeutiche a ogni decisione. Nei casi estremi il suo lavoro è frenato dall’”effetto biblioteca” che comporta il rischio di un’eccessiva accumulazione d’informazioni non tutte sempre utili.
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L’esploratore è un creativo entusiasta del proprio lavoro e solo su di esso è focalizzato. Svolge la mansione assegnatagli con energia e passione a danno di una modesta capacità di ascolto. Le sue attitudini professionali si riducono se deve affrontare lavori di sgradita routine.
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Lo sfidante è costantemente orientato a conseguire il migliore risultato. Dotato di energia e capacità strategiche, è un freddo razionalista poco disposto all’ascolto e al confronto perché ha già le sue idee che aprioristicamente ritiene essere le migliori.
Il selezionatore è un giudice che, come scrisse Leonardo Sciascia riferendosi a quest’ultimo, “non deve godere del potere affidatogli, ma soffrirne” a lui è anche riservato il non facile compito di ammettere le proprie debolezze e emotività proprio al fine di controllarle, egli è un essere umano come l’esaminando che gli sta davanti ed ogni dichiarazione di fredda capacità di giudizio scevra da umani e, spesso, fragili sentimenti sarebbe falsa, ingenua e perfino ridicola. Nella selezione svolta in seno a un’entità economica pubblica o privata che sia, il fine è quello di scegliere tra un certo numero di candidati colui o coloro a cui affidare un ben determinato e chiaramente definito lavoro. La bontà di giudizio del selezionatore si fonda sulla sua capacità di sapere coniugare i predeterminati obiettivi con le risorse umane disponibili, l’errore in cui può incorrere è, secondo Marvin Dunette docente di Psicologia all’Università del Minnesota, quello di preferire un candidato “falsamente positivo” o “falsamente negativo”. Il primo tipo di errore consiste nell’assegnare la posizione lavorativa a chi nel tempo si dimostra a essa inadatto e il secondo tipo di errore consiste nel non avere attribuito la posizione lavorativa a chi ne aveva merito.
Coloro che come me hanno selezionato un più che significativo numero di candidati conservano nel proprio armadio alcuni “cadaveri” falsamente positivi e/o falsamente negativi. Se ciò è ascrivibile a lieve colpa non c’è di che vergognarsi per gli sbagli di valutazione commessi, ma se le cause sono di natura dolosa meglio sarebbe stato non accettare incarichi che non si è in grado di assolvere con la dovuta competenza e dignità.
Durante la precedente esposizione sul sapere essere ho accennato alla fisiologica conflittualità scaturente dal plurimo confronto di interessi diversi, ma prima di affrontare l’argomento nel suo complesso desidero fare un breve accenno sui non rari casi di “conflittualità con se stessi” che nelle forme più gravi è una patologia di origine depressiva. Più frequentemente il citato conflitto è causato dallo scontro tra “ragione e sentimento” e, conseguentemente, si è dibattuti sulla necessità di fare prevalere uno dei due prima di assumere la decisione finale a seguito di una tra le più travagliate negoziazioni. Giova osservare che il conflitto d’interessi non si manifesta solo con se stessi, con i propri simili e nelle aziende, ma anche in tutte le aggregazioni sociali compresa la famiglia in cui ciascuna parte, intesa come centro di interessi di un solo soggetto o comuni a più individui, persegue scopi diversi da quelli che le altre parti intendono conseguire. Ogni individuo esprime un’originalità assoluta nel senso che egli è diverso da tutti gli altri e differenti sono gli interessi che animano i suoi comportamenti. Se detta diversità è totale non può esserci né rapporto né conflitto con gli altri esseri umani, ma se la diversità è parziale nasce un rapporto sovente complesso con la conseguenza che la conflittualità è inevitabile. Essa può essere considerata come l’interazione tra parti i cui interessi sono interdipendenti e ciascuna parte percepisce la soddisfazione degli interessi altrui come preclusiva dei propri. E’ particolarmente interessante analizzare come le parti “vivono” la conflittualità e “tollerano” la diversità. Se la conflittualità è vissuta come un fenomeno patologico intervengono i seguenti due elementi: il rifiuto della diversità e il consenso è preteso poiché considerato un punto di partenza. Ne consegue che il conflitto è un rapporto antagonista in cui le parti lottano per ottenere il massimo risultato. Con tali premesse si perviene alla “rissa” che si affronta con il solo ausilio delle proprie forze fisiche e fonetiche nel senso che spesso il consenso si cerca gridando più forte. Se la conflittualità è vissuta come un fenomeno fisiologico intervengono i seguenti due elementi: l’accordo è cercato poiché considerato un punto di arrivo. Ne consegue che il conflitto è una fonte di energia che consente alle parti di ottenere congiuntamente risultati migliori di quelli che avrebbero potuto conseguire singolarmente. Con tali premesse si perviene alla “negoziazione” intesa come un processo in cui due o più parti interdipendenti, poiché portatrici d’interessi comuni e diversi, cercano di incontrarsi al fine di conseguire un obiettivo finale tramite il raggiungimento di un accordo di mutua soddisfazione. Il campo negoziale entro cui si “muovono” le parti può essere considerato come un segmento che, come tale, contiene infiniti punti dei quali gli estremi sono gli “interessi in gioco” e le “alternative all’accordo”. L’efficacia della negoziazione dipende prevalentemente dalla capacità di ascolto, dall’abilità nel gestire la tensione e dalla ricerca di un “valore aggiunto” derivante da ciascuna rivendicazione. Nella negoziazione entrano in competizione due tipi di comportamento: quello “creativo” del citato valore aggiunto costituito dalla percentuale dei propri interessi condivisi dalla controparte e quello “rivendicativo” dei soli propri interessi. Da qui nasce il “dilemma del negoziatore” tormentato dal dovere scegliere “quando, come e se” privilegiare uno dei suindicati comportamenti a scapito dell’altro. A maggiore chiarimento valga il seguente esempio.
Si supponga che due parti contendenti indicate come A e B assumano in sede di negoziazione uno dei possibili seguenti quattro comportamenti:
1° A e B “creano”. Il risultato della negoziazione sarà buono per entrambi.
2° A “crea” e B “rivendica”. Il risultato della negoziazione sarà ottimo per A e pessimo per B.
3° A “rivendica” e B “crea”. Il risultato della negoziazione sarà pessimo per A e ottimo per B.
4° A e B “rivendicano”. Il risultato della negoziazione sarà mediocre per entrambi.
Nel rapporto negoziale si realizza un “gioco” tra creazione e rivendicazione che ha trovato scientifica inclusione nella ben nota “teoria dei giochi”. Era il 1944 quando il Prof. John Von Neumann dell’Università di Princeton diede con il suo libro intitolato “Theory of games and economic behaviour” carattere scientifico, matematico ed econometrico alla teoria dei giochi. E ancora nel 1994 fu conferito il premio Nobel ai seguenti tre matematici cultori del “Game Theory”, i Professori John Nash dell’Università di Princeton, John Harsanyi dell’Università di Berkley e Reinhard Selter dell’Università di Bonn. Il merito dei tre scienziati consiste, tra l’altro, nell’avere elaborato un modello matematico dei soli due possibili tipi di gioco strategico che sono: il “cooperativo” in cui i giocatori contribuiscono insieme al conseguimento del migliore risultato e il “non cooperativo” in cui ogni giocatore pone in essere una strategia individuale finalizzata al solo proprio scopo. Ad esempio, il diffondersi del fenomeno delle corruzioni è assimilabile a un gioco cooperativo mentre quello delle tangenti è paragonabile a un gioco non cooperativo. In ogni caso, l’equilibrio di un gioco è, secondo la definizione di John Nash, “la strategia con la quale ogni giocatore massimizza il proprio risultato prevedendo le strategie degli altri giocatori”. Un tipico esempio è dato dal seguente “dilemma del prigioniero”. In una città americana un supermarket subì una rapina effettuata da ignoti che riuscirono a dileguarsi prima che giungesse la polizia. A seguito dell’immediato rastrellamento quest’ultima fermò due pregiudicati, che chiamerò A e B, già condannati per rapina e che erano armati di pistola pur non avendo il porto d’armi. Entrambi furono portati dinanzi al giudice che, desideroso di avere notizie sulla banda di loro presunta appartenenza, disse ai due sospettati: “Quattro sono le ipotesi riguardanti l’imputazione contro di voi; domani dopo una notte di isolamento che non vi consentirà di comunicare tra voi, mi direte quale incriminazione e relativa condanna scegliete in conseguenza del fatto che confesserete o meno quanto mi interessa conoscere sulla banda a cui credo appartenete.
1° ipotesi. Se entrambi tacete, sarete incriminati per abusivo porto d’armi e condannati a un anno di reclusione.
2° ipotesi. Se A tace e B confessa, B è rilasciato e A è incriminato per rapina a mano armata e condannato a otto anni di reclusione.
3° ipotesi. Se B tace e A confessa, A è rilasciato e B è incriminato per rapina a mano armata e condannato a otto anni di reclusione.
4° ipotesi. Se entrambi confessate, sarete imputati per semplice rapina e condannati a quattro anni di reclusione”.
Dopo una notte insonne i due rapinatori scartarono l’ipotesi della totale reciproca fiducia di cui alla 1° ipotesi, nessuno di loro corse il rischio di avvantaggiare l’altro a proprio danno come previsto nelle ipotesi 2° e 3° e quindi scelsero la 4° optando entrambi per una completa confessione. Il giudice ebbe tutte le informazioni che desiderava e l’intera banda fu sgominata. Non è importante sapere se la storia che ho raccontato è vera o immaginaria e se le sanzioni penali sono corrette o meno, è invece significativo notare come il giudice “giocò le proprie carte” attivando una strategia efficace e tutta rivolta a proprio vantaggio.
Il dilemma del prigioniero pone in evidenza come la negoziazione si colloca in uno degli infiniti punti di un intervallo lineare i cui estremi sono: il potere e la dipendenza. Il potere di una parte deriva anche dalla dipendenza della controparte e viceversa, esso si manifesta attraverso una o più delle seguenti tre categorie: competenza, autorità e terrorismo. La competenza dipende dal grado di conoscenza e cultura, mentre l’autorità e il terrorismo dal grado gerarchico e dalle minacce. Nel suddetto campo negoziale il buon negoziatore cerca di capire cosa la controparte “veramente” vuole che non sempre coincide con quanto dichiara di volere. I professionisti della negoziazione sono essenzialmente di due tipi: positional bargaining e interest bargaining. I primi contrattano e assumono predeterminate posizioni, formulano le loro richieste e valutano il successo in conformità a quanto è accettato dalla controparte, conseguentemente la negoziazione si fonda su un’unica alternativa: “o vinco io o vinci tu”. I secondi contrattano interessi e considerano fondamentale l’accertamento dei reali desideri della controparte per confrontarli con i propri e cercare convenienti soluzioni alternative finalizzate alla reciproca soddisfazione. Il seguente esempio potrà meglio chiarire la differenza tra i due suindicati tipi di mediatore.
Un imprenditore riceve, con poco entusiasmo, da un suo dipendente la richiesta di un aumento di stipendio e, conseguentemente, deve negoziare detta istanza con la propria riluttanza ad accettarla.
Per l’identificazione dei due contendenti userò gli acronimi IM per l’imprenditore mediatore e DR per il dipendente richiedente al fine di semplificare l’esame dei possibili risultati nelle ipotesi che IM rientri in ciascuno dei due tipi di mediatore sopra indicati:
1° caso: IM è un “positional bargaining”. Egli penserà che DR chiede un aumento di X+Y al fine di ottenere almeno X e, pertanto, per reazione uguale e contraria, non proporrà un aumento inferiore a quello richiesto, bensì paventerà una possibile riduzione dello stipendio giustificandola con un vero o presumibile calo del volume degli affari e simili eventi negativi. In questi casi la contrattazione basata solo sulla difesa delle proprie posizioni conduce al seguente obiettivo: “tanto peggio per te tanto meglio per me”.
2° caso: IM è un “interest bargaining”. Egli cercherà di capire perché DR chiede un aumento di stipendio e, per esempio, scopre che la richiesta deriva dalla necessità di avere una maggiore disponibilità di denaro per fronteggiare sopravvenute temporanee o durature necessità familiari. Sulla scorta di questa preziosa informazione IM proporrà a DR, per esempio, uno o più dei seguenti incentivi tutti finalizzati a una reciproca soddisfazione: fare straordinari retribuiti, ricevere un premio se la produzione supera un predeterminato livello, ottenere una provvigione per il procacciamento di nuovi affari e simili. In questi casi la contrattazione basata sulla ricerca dei comuni interessi conduce al seguente obiettivo: “tanto meglio per te tanto meglio per me”.
Per quanto paradossale possa sembrare la migliore negoziazione può anche essere “la resa incondizionata” come nel seguente esempio. Alla Columbia University quando il Generale Dwight Eisenhower alla fine della seconda guerra mondiale ne era il Presidente, gli studenti per raggiungere un campus evitavano l’apposito marciapiede calpestando l’erba del prato circostante. A nulla servirono divieti e recinzioni, gli studenti insistevano tanto da avere formato sul prato un vero sentiero sul quale l’erba non poteva più crescere.
Al fine di risolvere il problema fu interpellato Eisenhower che propose di costruire un nuovo marciapiede dove si era formato il sentiero e piantare l’erba al posto dell’inutilizzato marciapiede. Il saggio Ike implicitamente ammise che studenti avevano avuto un’idea alternativa migliore di quella originaria del progettista e quindi l’unica possibile mediazione soddisfacente per tutti era accettare la volontà manifestata dagli universitari arrendendosi incondizionatamente.
Una minoranza di persone, che è meglio evitare, è soddisfatta dal solo fatto di essere in conflitto, la maggioranza invece preferisce risolvere il conflitto anche a costo di perdere qualcosa pur di guadagnarne un’altra. E’ su questa considerazione che si fonda la strategia del “mini-max” secondo la quale prima di iniziare una negoziazione è necessario porsi queste fondamentali domande:
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Quale è il minimo che posso accettare?
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Quale è il massimo che posso chiedere?
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Quale è il minimo che posso accordare?
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Quale è il massimo che posso concedere?
Queste quattro domande esprimono il concetto base della strategia del mini-max che è: “Best alternative to a negotiated agreement. La migliore alternativa verso la negoziazione di un accordo”.
Nel gioco negoziale si possono assumere due tipi di posizioni: “dure” e “morbide”. Se si assume una posizione dura è difficile modificarla perché il “proprio io” si identifica con essa e ogni alternativa viene vissuta come il “perdere la faccia”. A maggiore chiarimento valga il seguente esempio. Durante la presidenza Kennedy tra L’America e la Russia sorse l’interesse a compiere reciproche ispezioni territoriali su eventi sismici sospetti. L’America ne propose dieci e la Russia ne accettò tre, ciascuno dei due Paesi si arroccò sulle proprie posizioni e, cosa altrettanto grave, nessuno indagò se l’ispezione consisteva nel fatto che un perito avesse dovuto dare una formale sbirciatina per un giorno o se cento scienziati avrebbero dovuto fare analisi di lungo periodo. Il risultato fu che la trattativa si arenò e, per quanto i due Paesi fossero seriamente interessati alla reciproca ispezione, l’accordo non fu trovato. Se si assume una posizione morbida, il gioco negoziale tende a enfatizzare l’importanza di costruire e mantenere il rapporto. Sovente ciascuna delle parti fa a gara per essere più generosa dell’altra con la conseguenza che il raggiungimento dell’accordo è tanto probabile quanto il risultato può essere pessimo come nel caso dei genitori divorziati che gareggiano tra loro sul numero dei regali da fare ai sempre più viziati figli. E ancora, in uno dei quaranta racconti di O. Herry, pseudonimo dello scrittore americano William Sydney Porter, si narra di una coppia di sposi poveri ma innamorati; per tale sentimento la moglie vende la propria lunga chioma per comprare una catena per l’orologio del marito che, ignaro dell’iniziativa della coniuge, vende il proprio orologio per comprare alcuni pettini destinati a reggere la folta capigliatura dell’amata sposa. In entrambi i precedenti esempi, il fallimento della negoziazione è dipeso dall’assenza di “analisi oggettiva” del problema con la conseguenza che l’emotività ha sostituito la razionalità fino al punto di non essere capaci a intravedere possibili alternative quali, per gli esempi proposti, indagare sul tipo di ispezione e accettare il fatto che, specialmente per i meno abbienti, è meglio andare insieme a comprare i regali perché mancherà la sorpresa, ma almeno si è certi di non sbagliare. Sull’argomento Roger Fisher e William Ury Professori dell’Università di Harvard suggeriscono di scindere le persone dal problema, concentrarsi sugli interessi e non sulle posizioni, inventare soluzioni vantaggiose per tutti e insistere su criteri oggettivi anche al fine di incrementare nel corso del rapporto conflittuale la percentuale delle proprie ragioni rispetto a quella dei propri torti. A tale proposito giova ricordare il seguente passo dedicato dal Manzoni nel suo romanzo storico a giustificazione, sia pure parziale, della vigliaccheria di Don Abbondio sempre schierato dalla parte del più forte: “A chi, messosi a sostenere le sue ragioni contro un potente, rimaneva col capo rotto, Don Abbondio sapeva trovar sempre qualche torto; cosa non difficile, perché la ragione e il torto non si dividono mai con un taglio così netto che una parte abbia soltanto dell’una o dell’altro”. In realtà, nelle istanze dei protagonisti di un rapporto conflittuale convivono percentuali diverse di ragione e di torto e una saggia negoziazione deve essere condotta sostenendo le proprie ragioni senza escludere l’ipotesi di avere torto. Tale comportamento prevede un’indispensabile “capacità di ascolto e tolleranza” perché i “sordi tuttologi” che per vocazione e rachitica intelligenza assumono il ruolo di eterni predicatori illusi di essere i titolari di un’unica verità, finiscono inesorabilmente con l’avere un solo uditore: se stessi.
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