AUGURI PER IL NUOVO ANNO
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A tutti vada il piu’ caro augurio di un Buon ANNO NUOVO.
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Ho individuato questo ristorante tramite The Fork, Era tra quelli che avrebbero praticato uno sconto del 50%, bevande escluse. Seguendo poi le recensioni di tripadvisor, ho provato un Gunkan alla carbonara ( un piccolo sushi ripieno di riso) Quindi ho diviso con mia moglie tre fiori di zucca anch’essi ripieni di riso e caramellati all’esterno. Entrami direi molto buoni. Ordinato poi una bottiglia di ottimo lambrusco.
Quindi un gradevole riso Fume’. Infine abbiamo concluso con un tiramisu’ e una meringa al mascarpone. Il locale e’ ben arredato con tavoli a cui era appoggiata un lastra di legno. Servizio premuroso e professionale da parte di giovani camerieri. In quattro abbiamo pagato 25 € a testa, dedotto uno sconto pari a 50€. Credo che ritornero’ sia per guastare una pozione intera di Gunkan che il riso allo zafferano zafferano con aggiunta di trito di cervo.
19 novembre 2022 Repubblica
L’INTERVISTA
Quando siamo partiti il nostro sogno era mettere un computer su ogni tavolo”, ha detto il fondatore di Microsoft; il mioè dare a ogni italiano almeno un maglioncino di cashmere». Sandro Veronesi, il presidente del Gruppo Calzedonia, cita Bill Gates ma veste alla Steve Jobs: con un dolcevita nero firmato Falconeri, brand acquisito nel 2009 con un ambizioso obiettivo: più cashmere per tutti. Allargare cioè il mercato puntando su prezzi democratici e su una filiera interamente controllata e per di più sostenibile. Il che suona come un ossimoro, visto che si parla di capi fatti con fibre che arrivano dalla Mongolia. Per capire siamo andati nello stabilimento di Avio, paesino con poco più di 4mila anime stretto tra le montagne trentine in cui viene lavorata la preziosa fibra Duvet, la lana più sottile e pregiata delle capre dell’Asia orientale. «Per realizzare un maglione servono due capre che vengono non tosate, ma pettinate per raccogliere il sottovello, la parte più morbida del pelo», racconta Veronesi prima di addentrarsi tra i numeri del brand. Falconeri produce 2 milioni e mezzo di capi all’anno, di cui 2 milioni in cashmere, ma vuole produrne molti di più ampliando un mercato che sembra non risentire delle conseguenze della guerra in Ucraina né della pandemia: «Le esportazioni continuano perché i nostri capi sono sotto i 300 euro, non soggetti a misure restrittive comebeni di lusso», spiega il presidente.
Quanto alla pandemia, ha abituato le persone a un certo stile cozy che con la maglieria e il cashmere si sposa bene: «Dopo mesi trascorsi in casa con capi sportivi indosso, la gente apprezza la comodità e non vuole più abiti rigidi, formali. Abbiamo incluso in collezione delle tute e stanno andando molto bene. Il cashmere è sempre stato considerato bello e caldo, ma caro. Noi l’abbiamo reso accessibile. Ci siamo posizionati nel mezzo tra il lusso, di cui il cashmere fa parte, e la maglieria, di costo ridotto», spiega Veronesi, mentre gira tra le postazioni delle sue operaie, al lavoro sulla rimagliatura.
«Se vi chiedete come sia possibile far pagare un cashmere 149 euro, la risposta non è ‘produrlo in Cina’, ma il contrario: i nostri camion partono dalla Mongolia e arrivano a Biella per la filatura, ad Avio il filo diventa maglione e a Gissi, in Abruzzo, viene confezionato. Vogliamo togliere alla Cina anche il ruolo di intermediazione per andare a prendere la materia prima direttamente al pascolo». Falconeri sta per riuscire a controllare l’intera filiera, dalla capra al cliente finale, grazie a un’operazione di 20 milioni di euro che gli garantirà un approvvigionamento diretto: «Costruiremo un impianto di raccolta prendendo accordi con le cooperative di pastori per ottenere le fibre migliori e garantire condizioni eque a persone stanche di veder guadagnare chi rivende il loro cashmere. I commercianti cinesi hanno contatti con i compratorioccidentali, quindi sono loro a fare il prezzo; è interesse del governo mongolo invitare aziende come la nostra a investire nel Paese per tagliarli fuori e promuovere l’economia locale».
Così arriviamo al cliente finale e con lui a un punto cruciale: la GenZ è in linea teorica il target più sensibile a questo nuovo concetto di cashmere sostenibile, eppure ne resta distante.
La sfida per Falconeri è attrarre i giovani verso un prodotto che non considerano loro: «I nostri clienti sono al 70 per cento donne dai 45/50 anni in su. I giovani sono spaventati dalla spesa e dalla cura che si pensa sia dovuta a questi capi. A torto: basta lavarli spesso, in acqua fredda e con saponi delicati». Oltre al lungo ciclo di vita, il cashmere diventa sostenibile «se è prodotto con pratiche che riducono l’impatto ambientale e garantiscono l’adeguatezza del ritorno economico a tutti i partecipanti della catena di fornitura», spiega Veronesi.
Garantirlo è compito della Sustainable Fibre Alliance (SFA) cui Falconieri ha aderito nel 2019.
La conquista della GenZ è comunque un obiettivo sul lungo periodo per il brand, che al momento punta tutto sul raggiungere, grazie all’investimento sulla filiera sostenibile, 200 milioni di fatturato contro i 125 dell’anno scorso. E questo nonostante il clima sempre più caldo, che non favorisce l’uso del cashmere.
Veronesi è determinato: «Per fare l’imprenditore oggi ci vuole un buon grado di incoscienza».
Sopra, un modello della collezione
DI DI EVA GRIPPA
Inviato da iPad
di Eraldo Affinati
La discussione sul merito è ad alto tasso di fraintendimento e, per quanto preziosa nel rimettere al centro il tema educativo, grande ingiustificato assente della campagna elettorale, rischia di condurci fuori strada. Nessuno potrebbe negare alla scuola il diritto-dovere di scoprire, conoscere e valorizzare, in piena sintonia col lungimirante dettato costituzionale, i talenti degli studenti: ci mancherebbe altro che i docenti non facessero questo!
Ogni bambino e adolescente ha una passione nascosta, un’inclinazione sopita, una sensibilità speciale; è compito del docente far entrare in contatto il giovane che ha di fronte col suo “maestro interiore”: secondo Sant’Agostino era Dio, ma possiamo utilizzare questa immagine anche in senso greco, come daimon, voce segreta dell’anima, luogo del destino. Non pensiamo a chissà quali stravolgimenti. A volte la nostra piccola via di Damasco consiste nel far brillare gli occhi dei ragazzi che ci sono stati affidati. Magari soltanto per un istante. Ad esempio quando Romoletto, bocciato e negligente, iscritto all’istituto professionale per l’industria e l’artigianato, croce e delizia dell’istruzione italiana, all’ultima ora del martedì, mentre stai spiegando I fiumi di Giuseppe Ungaretti, la classe è stanca e sfinita, quasi nessuno segue, all’improvviso ti rivolge una domanda a bruciapelo: professore, dov’è morto questo poeta? E tu gli rispondi: a Milano, ma è sepolto al cimitero del Verano, a Roma. D’istinto lui ribatte: perché non ci andiamo? Lo prendi in parola: va bene, allora domani vediamoci alla stazione Termini, poi prendiamo l’autobus e facciamo lezione davanti alla sua tomba. Quelle simpatiche canaglie, giunte al cospetto del loculo ingiallito, parevano trasfigurate, nemmeno fossero diventate studenti oxfordiani.
Nel momento in cui ciò avvenisse, ed illuminazioni consimili accadono spessissimo nella tanto bistrattata scuola italiana, è fondamentale riconoscere il merito. Questo non significa distribuire ai vincitori le medaglie necessarie a farli salire sul podio isolandoli dal resto della comitiva. La scuola pubblica (elementari, medie inferiori e superiori) non è la squadra olimpica. E neppure un’azienda. Non deve produrre vittorie e sconfitte, introiti e profitti. Dobbiamo formare la coscienza dei futuri cittadini. Consegnare il testimone della tradizione. Ripristinare le gerarchie di valore nel grande mare indifferenziato e tumultuoso della Rete. Spezzare il pane della cultura. Far partecipare tutti senza lasciare indietro nessuno. Ogni apprendimento ha una forma e un tempo diverso da un altro. Modalità e idiosincrasie che vanno riconosciute, non cancellate: se puntiamo solo al traguardo finale, senza valutare il movimento registrato dall’alunno rispetto alla sua stazione di partenza, trasformiamo l’aula in un percorso di guerra. Le interrogazioni diventano povere recite. Le domande ridicoli tranelli. I diplomi patetiche coccarde.
Al contrario, bisogna puntare sulla qualità della relazione umana. I docenti, sia ben chiaro, non devono mai abbassare l’asticella degli obiettivi da realizzare, ma non si possono accontentare di spiegare il programma e mettere il voto, come se fossero semplici spartitori di traffico concettuale: chi c’è c’è; chi non ascolta, o non raggiunge i risultati prefissati, lo tagliamo via come un ramo secco dall’albero. Troppo facile. Così le percentuali della dispersione e degli abbandoni, già altissime, una ferita sanguinosa nel tessuto sociale del Paese, continueranno a crescere. Il bravo insegnante lo vedi nei momenti difficili, non quando tutto funziona o sembra andar bene. La scuola è il luogo elettivo dell’errore perché svela la potenziale menzogna insita nella risposta esatta: quella che viene data nei quiz a crocetta con soluzioni da scegliere seguendo l’intuito non è vera conoscenza. Perché i nostri studenti, quando vanno all’estero a svolgere gli stage formativi, fanno spesso bella figura rispetto ai loro coetanei stranieri? Non erano andati male ai test Invalsi?
Al merito dovremmo accostare la parola inclusione. Non stiamo parlando dell’università. Ci riferiamo ai ragazzi in formazione. A cosa ti serve il tuo sapere se non lo condividi, se non lo metti a rischio, se te lo tieni solo per te? Dovremmo evitare come la peste ogni schematismo ideologico. Affranchiamoci anche, se possibile, dai discorsi astratti e teorici. Noi docenti abbiamo a che fare con le persone. Quando entriamo in classe assumiamo la responsabilità dello sguardo dei nostri studenti. Che è pre-giuridica, pre-morale, pre-sociale. Non basta eseguire il mansionario. Io ho insegnato per quarant’anni: prima ai ragazzi di borgata, poi agli immigrati (con la partecipazione attiva dei liceali italiani). I miei studenti erano tutti underdog: eppure sono stati loro, paradossalmente, a farmi capire che non si può essere felici se l’infelicità colpisce chi ti sta accanto.
Antonio Scurati è nato a Napoli nel 1969, è cresciuto tra Venezia e Ravello e vive a Milano. Docente all’Università IULM, editorialista del Corriere della Sera, ha vinto i principali premi letterari italiani ed è tradotto in tutto il mondo. Esordisce nel 2002 con Il rumore sordo della battaglia, poi pubblica nel 2005 Il sopravvissuto (Premio Campiello) e negli anni seguenti Una storia romantica (Premio SuperMondello), Il bambino che sognava la fine del mondo (2009), La seconda mezzanotte (2011), Il padre infedele (2013), Il tempo migliore della nostra vita (Premio Viareggio-Rèpaci e Premio Selezione Campiello). Del 2006 è il saggio La letteratura dell’inesperienza, seguito da altri studi, tra cui la monografia Guerra. Il grande racconto delle armi da Omero ai giorni nostri. Scurati è con-direttore scientifico del Master in Arti del Racconto. Del 2018 è M. Il figlio del secolo, primo romanzo dedicato al fascismo e a Benito Mussolini: in vetta alle classifiche per due anni consecutivi, vincitore del Premio Strega 2019, è in corso di traduzione in quaranta paesi e diventerà una serie televisiva. Del 2020 è M. L’uomo della provvidenza, e del 2022 M. Gli ultimi giorni dell’Europa. www.antonioscurati.com
Scritto da Maurizio Serra ‘Vita e Leggende.
Curzio Malaparte, nome d’arte di Curt Erich Suckert, è stato uno scrittore, giornalista, militare, poeta e saggista italiano, nonché diplomatico, agente segreto, sceneggiatore, inviato speciale e regista cinematografico, una delle figure centrali dell’espressionismo letterario in Italia e del neorealismo.
Mitomane, esibizionista, gelido dandy che flirta con fascismo, marxismo e anarchia, attratto di volta in volta dall’Italia di Mussolini, dall’Urss di Stalin, dalla Cina di Mao e dall’imperialismo americano. Seduttore inveterato, esibizionista, “camaleonte” pronto a servire (e a servirsi di) ogni potere. Tutto e il contrario di tutto, in apparenza, Curzio Suckert detto Malaparte (1898-1957) sfidò solitario le convenzioni della sua epoca. Questa poderosa biografia di Maurizio Serra – basata su un’ampia documentazione, su corrispondenze e testimonianze anche inedite – ci restituisce le sfaccettature di una vicenda umana e letteraria che non può ridursi ai luoghi comuni che ne hanno imprigionato la memoria. Emerge così la modernità di un Malaparte visionario interprete della decadenza europea, che non smette di stupire perché aveva, potente e inconfessato, il gusto dello scacco: «Malaparte o le disavventure di Narciso».