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Dalla Scrivania di Benedetto Ingrassia
D A L L A S C R I V A N I A
di
B e n e d e t t o R e m o I n g r a s s i a
2022-2023
Benedetto Remo Ingrassia è nato a Palermo il 10 Gennaio 1941,
vive a Milano dove studia per passione e pratica lo sport della mente giocando a bridge per diletto.
Ha conseguito i seguenti titoli di studio:
– Laurea magistrale in Economia (ex Economia e Commercio).
– Diploma Universitario in Statistica con lode.
– Abilitazione all’esercizio della libera professione di Dottore Commer- cialista.
– Diploma di abilitazione all’insegnamento superiore di Economia Aziendale (ex Ragioneria Generale e Applicata), Tecnica Bancaria, Industriale e Mercantile.
– Laurea magistrale in Scienze Statistiche ed Economiche con lode.
Ha svolto le seguenti attività lavorative:
– Docente di Economia Aziendale.
– Assistente presso l’Università di Palermo alle cattedre di Economia Aziendale (ex Ragioneria) e Tecnica del Commercio Internazionale.
– Libero professionista nelle qualità di Dottore Commercialista e Revisore Ufficiale dei conti.
– Presidente dello Studio Associato di consulenze aziendali CONSULT i.p..
– Capo Ufficio Selezione e Reclutamento del Personale di una S.p.A. a partecipazione statale.
– Head Hunter (cacciatore di teste) nell’esercizio della funzione di Formatore Professionale e Selezionatore Attitudinale del Personale.
FORMAZIONE PROFESSIONALE SELEZIONE ATTITUDINALE CONFLITTUALITA’ E NEGOZIAZIONE
La formazione e la selezione sono funzioni manageriali a elevato contenuto strategico poiché tendenti a incrementare il rendimento del personale e con esso la migliore reintegrazione del relativo costo che, com’è noto, è uno dei più controversi e significativi che una azienda sostiene. Premetto che nella seguente esposizione il termine azienda sarà adoperato superando la nozione teorica e codicistica, poiché è utilizzato nel suo più vasto campo di applicazione, essa pertanto sarà considerata come un’entità economica ove si produce e si lavora; conseguentemente tratterò alcune problematiche inerenti la formazione e la selezione in realtà diverse quali le aziende pubbliche e private, gli studi professionali, la scuola e l’università cercando di cogliere i non pochi denominatori comuni. La congiunzione “e” posta tra i termini formazione e selezione andrebbe letta usando il prefisso latino “inter” poiché “tra” la formazione e la selezione esiste un interconnesso rapporto di correlazione tale che, in considerazione del comune obiettivo, riesce impossibile delimitare i confini delle due funzioni, salvo fermarsi alla superficiale constatazione che la selezione del personale è la verifica del grado di efficienza della formazione professionale a esso impartita da altri o coltivata da se stessi. Per quanto io non ami le definizioni perché evocano forme più mnemoniche che elaborative ne azzardo due al fine di chiarire il mio pensiero quando uso i termini formazione professionale e selezione del personale. Entrambe sono una risorsa delle economie avanzate e in particolare la formazione è “un investimento diretto alla migliore qualificazione del capitale umano” che nella terminologia anglosassone è chiamato “intangible capital” mentre la selezione è “una funzione di scelta tra più persone finalizzata all’assegnazione di una posizione lavorativa per la quale si ritiene adatto un soggetto dotato, almeno sufficientemente, delle seguenti qualità: sapere, sapere fare, sapere essere e sapere divenire intesa quest’ultima quale stimolo rivolto a inseguire le proprie ragionevoli ambizioni e capacità di adattamento alle sempre mutevoli condizioni esterne”.
Il “sapere” consiste in una buona conoscenza di carattere teorico ed è quindi riferito a discipline quali l’economia, il diritto, l’elettronica, l’anatomia e altre. Vari sono i fattori che incidono sul grado del sapere, prima tra tutte è la cultura sinteticamente intesa come l’insieme delle acquisizioni di conoscenze che ove fossero superficiali diverrebbero più pericolose dell’ignoranza.
Il “sapere fare” è costituito da una buona padronanza di carattere tecnico-professionale ed è quindi connesso alle applicazioni, alle procedure, alle analisi operative, ai risultati strategici e simili. Vari sono i fattori che incidono sul grado del sapere fare, prima tra tutte è l’intelligenza sinteticamente intesa come un insieme di abilità finalizzate al perseguimento di uno scopo tramite l’uso della ragione.
Per quanto riguarda il “sapere essere”, esso s’interconnette con la migliore qualificazione del capitale umano che ho precedentemente indicato quale finalità precipua della formazione. Intendo che i migliori risultati nel proprio lavoro, autonomo o dipendente, non si conseguono solo grazie a un elevato grado di conoscenze teoriche e tecnico-professionali, ma dipendono altresì dai seguenti sette fattori:
- Avere la capacità di impiegare ed evidenziare il mix dei propri talenti quali il coraggio, la prudenza, la lungimiranza, la tempestività e l’abilità nell’interiorizzare gli obiettivi del contesto in cui si lavora, divenendone parte integrante.
- Avere uno spiccato senso di tolleranza alla fisiologica conflittualità inevitabile nei rapporti plurimi.
- Avere buone capacità nella difficile “arte del negoziare”.
- Essere portatore di un’immagine dai forti contenuti di rigore profes- sionale al fine di guadagnare la propria e l’altrui considerazione e apprezzamento.
- Avere condivisibili ragioni per coltivare un’autostima non narcisista.
- Avere una forte consapevolezza del proprio ruolo professionale e viverlo con lealtà verso i superiori, i colleghi e i subalterni.
- Essere disponibile a nobilmente servire gli altri, collaboratori o discepoli che siano, in misura direttamente proporzionale alla differenza gerarchica o culturale.
A tale proposito giova osservare che quando due culture di grado diverso s’incontrano è sempre quella più elevata che dovrebbe scendere al livello inferiore poiché è ingenuo pretendere il contrario e se ciò accadesse ogni tipo di confronto sarebbe sterile e perfino inutile. A mio sommesso avviso le sopra indicate sono solo alcune delle tematiche di riflessione e analisi proposte dalla formazione e oggetto di verifica da parte della selezione che, se riferita al sapere essere, è più compiutamente chiamata “selezione attitudinale” finalizzata a verificare il grado quantitativo e il valore qualitativo delle attitudini ad assumere un determinato ruolo. Infatti, per esempio, un eccellente ricercatore in una qualunque disciplina non è conseguentemente un buon insegnante sul quale gravano gli oneri del confronto con gli allievi ai quali porgere nel modo più adatto le proprie conoscenze. Inoltre, non è l’obbedienza l’obbiettivo perseguito da un docente, ma la ricerca del confronto con i discepoli e, ove possibile, della condivisione con gli insegnamenti loro impartiti perché la cultura così come la democrazia non possono essere imposte. Allo stesso modo, l’antico e il moderno non prescritto giuramento di Ippocrate fanno riferimento a norme etiche di natura morale, comportamentale e attitudinale e non alle scontate competenze nel campo della medicina. Pur tuttavia il pretendere obbedienza non deve essere stigmatizzato in assoluto. Infatti, per esempio, un imprenditore titolare di un’azienda di qualunque dimensione avrà l’interesse e il dovere di ascoltare e valutare i pareri dei suoi più capaci collaboratori e il diritto di chiedere loro di uniformarsi alle sue scelte, ancorché non coincidenti con quelle di questi ultimi, per rispetto della gerarchia e, principalmente, perché solo su di lui grava il “rischio generale d’impresa”.
Da quanto sopra evidenziato, si evince l’esistenza di un’altra funzione costituita dall’”addestramento” tramite il quale s’imparano teorie e tecniche che la selezione verifica con l’indagine sul sapere e sul sapere fare, mentre attraverso la formazione s’interiorizzano comportamenti e consapevolezze che la selezione attitudinale verifica e valuta con l’indagine sul sapere essere. Non a caso ho accoppiato il termine addestramento con il verbo imparare e il termine formazione con il verbo interiorizzare. Non ritengo necessario soffermarmi sull’intimo significato da attribuire ai suindicati verbi e al prescelto accoppiamento.
Essere un top manager o un imprenditore o un libero professionista o un docente non dovrebbe essere una qualifica e ancor meno un mestiere, ma un modo di concepire la propria presenza professionale nella società che ci circonda ed è altresì il risultato della propria volontà e determinazione perché un lavoro si sceglie e se solo si accetta o, peggio, si subisce è per comprensibili necessità imposte da uno stato di bisogno che in precarie condizioni economiche riduce il grado di preferenza. In tema di volontà e determinazione giova citare Lee Iacocca il rifondatore della Chrysler che sapeva dove voleva arrivare ed è anche per questo che c’è arrivato e ancora Rita Hauser una tra le più famose donne avvocato d’America che soleva dire: “Dovete essere decisi a portare fino in fondo ciò che intraprendete poiché la forza della volontà nel volere superare gli ostacoli è una delle risorse umane più importante per arrivare al successo”. Traggo spunto da queste parole per soffermarmi sull’ultima di esse il “successo” traguardo di tante speranze.
Essere un uomo di successo nel proprio lavoro non comporta necessariamente diventare, ad esempio, un magnate come Bill Gates e fondare un impero economico simile alla Microsoft, ma significa avere la consapevolezza e il riconoscimento di essere utile nello svolgimento delle proprie mansioni avendo interiorizzato le finalità proposte dalla formazione professionale che, ripeto, può non solo essere inculcata, ma costituire altresì il risultato del confronto con altre esperienze tramite le “analisi di gruppo” ovvero realizzarsi attraverso solitarie riflessioni. Certo è che per diventare un uomo di successo un pizzico di fortuna non guasta, anzi esso può essere determinante se si assume nei confronti della dea bendata un atteggiamento non passivo di disperata attesa, ma propositivo e preparato a cogliere tutto il sapore del sospirato bacio.
Sul rapporto che ogni essere umano può istaurare con la fortuna Nicolò Machiavelli scrisse: “Senza la virtù l’occasione sarebbe venuta invano” ed io sommessamente aggiungo che nel proprio lavoro la fortuna consiste anche nel sapere cogliere le fuggevoli occasioni di produrre più del necessario o di quanto ci è stato richiesto nella consapevolezza che la fortuna raramente si trova, ma intenzionalmente si cerca.
Le presenti note necessitano anche di un cenno sugli errori prodotti da una cattiva formazione e da una peggiore selezione. Il formatore, pur non perseguendo finalità tendenti a ottenere una qualunque forma di “captatio benevolentiae”, rende un servizio di completa disponibilità a favore del formando, non assume atteggiamenti cattedratici da “barone” di funesta memoria, ma propone riflessioni e non insegna verità dogmatiche. La consapevolezza del ruolo affidatogli lo induce ad assolverlo con la saggezza di chi è più tormentato dal dubbio che confortato dalla certezza, usa con discrezione gli strumenti professionali che gli consentono di trattare anche argomenti di natura psicologica e comportamentale, ha sempre presenti i motivi per i quali il processo di formazione si realizza in quel particolare contesto di lavoro e/o di studio. Ne consegue che la vera formazione professionale non abbisogna di un particolare cerimoniale, come quello in uso per una conferenza, poiché essa è un “processo senza soluzione di continuità” del quale chi occupa una superiore posizione gerarchica o culturale deve costantemente farsi carico. Quest’ultimo, che possiamo identificare con il generico termine di “capo”, deve vivere il rapporto di lavoro e di studio con se stesso e con i propri collaboratori con l’atteggiamento di chi non assegna compiti, ma affida responsabilità, anche se ciò comporta un totale coinvolgimento e il
sostenimento d’impegni non indifferenti.
Nello svolgimento di una mansione, inclusa quella di capo, chi ne è il titolare, assume un comportamento influenzato dal “proprio essere” e da numerosi fattori esterni tra i quali anche il tipo di percorso formativo al quale è stato sottoposto. Un’interessante ricerca ha classificato i seguenti cinque tipi di persone che svolgono una funzione manageriale:
- Il progettista non ammette alternative diverse da quella secondo la quale “le cose si fanno bene o non si fanno”. Sovente un eccesso di perfezionismo e inflessibilità lo costringe a lavorare da solo e, nei casi estremi, rischia di diventare accentratore e stacanovista.
- L’aiutante è propenso a istaurare sempre buoni rapporti grazie anche alla sua capacità di ascolto. Antepone i bisogni degli altri ai propri, evita la conflittualità e anche per questo è giudicato, non di rado a ben ragione, privo di energia.
- Il pensatore ama il “problem solving” e quindi tende a collezionare dati che interconnette tra loro e costituiscono oggetto di lunghe riflessioni propedeutiche a ogni decisione. Nei casi estremi il suo lavoro è frenato dall’”effetto biblioteca” che comporta il rischio di un’eccessiva accumulazione d’informazioni non tutte sempre utili.
- L’esploratore è un creativo entusiasta del proprio lavoro e solo su di esso è focalizzato. Svolge la mansione assegnatagli con energia e passione a danno di una modesta capacità di ascolto. Le sue attitudini professionali si riducono se deve affrontare lavori di sgradita routine.
- Lo sfidante è costantemente orientato a conseguire quello che ritiene essere un ottimo risultato. Dotato di energia e capacità strategiche, è un freddo razionalista poco disposto all’ascolto e al confronto perché ha già le sue idee che aprioristicamente ritiene essere le migliori.
Il selezionatore è un giudice che, come scrisse Leonardo Sciascia non deve
godere del potere affidatogli, ma soffrirne, a lui è anche riservato il non facile compito di ammettere le proprie debolezze e emotività proprio al fine di controllarle, egli è un essere umano come l’esaminando che gli sta davanti ed ogni dichiarazione di fredda capacità di giudizio scevra da umani e, spesso, fragili sentimenti sarebbe falsa, ingenua e perfino ridicola. Nella selezione svolta in seno a un’entità economica pubblica o privata che sia, il fine è quello di scegliere tra un certo numero di candidati colui o coloro a cui affidare un ben determinato e chiaramente definito lavoro. La bontà di giudizio del selezionatore si fonda sulla sua capacità di sapere coniugare i predeterminati obiettivi con le risorse umane disponibili, l’errore in cui può incorrere è, secondo Marvin Dunette docente di Psicologia all’Università del Minnesota, quello di preferire un candidato “falsamente positivo” o “falsamente negativo”. Il primo tipo di errore consiste nell’assegnare la posizione lavorativa a chi nel tempo si dimostra a essa inadatto e il secondo tipo di errore consiste nel non avere attribuito la posizione lavorativa a chi ne aveva merito. Coloro che come me hanno selezionato un più che significativo numero di candidati conservano nel proprio armadio alcuni “cadaveri” falsamente positivi e/o falsamente negativi. Se ciò è ascrivibile a lieve colpa non c’è di che vergognarsi per gli sbagli di valutazione commessi, ma se le cause sono di natura dolosa meglio sarebbe stato non accettare incarichi che non si era in grado di assolvere con la dovuta competenza e dignità. Durante la precedente esposizione sul sapere essere ho accennato alla fisiologica conflittualità scaturente dal plurimo confronto di interessi diversi, ma prima di affrontare l’argomento nel suo complesso desidero fare un breve accenno sui non rari casi di “conflittualità con se stessi” che nelle forme più gravi è una patologia di origine depressiva. Più frequentemente il citato conflitto è causato dallo scontro tra “ragione e sentimento” e, conseguentemente, si è dibattuti sulla necessità di fare prevalere uno dei due prima di assumere la decisione finale a seguito di una tra le più travagliate negoziazioni. Giova osservare che il conflitto d’interessi non si manifesta solo con se stessi, con i propri simili e nelle aziende, ma anche in tutte le aggregazioni sociali compresa la famiglia in cui ciascuna parte, intesa come centro di interessi di un solo soggetto o comuni a più individui, persegue scopi diversi da quelli che le altre parti intendono conseguire. Ogni individuo esprime un’originalità assoluta nel senso che egli è diverso da tutti gli altri e differenti sono gli interessi che animano i suoi comportamenti. Se detta diversità è totale non può esserci né rapporto né conflitto con gli altri esseri umani, ma se la diversità è parziale nasce un rapporto sovente complesso con la conseguenza che la conflittualità è inevitabile. Essa può essere considerata come l’interazione tra parti i cui interessi sono interdipendenti e ciascuna parte percepisce la soddisfazione degli interessi altrui come preclusiva dei propri. E’ particolarmente interessante analizzare come le parti “vivono” la conflittualità e “tollerano” la diversità. Se la conflittualità è vissuta come un fenomeno patologico intervengono i seguenti due elementi: il rifiuto della diversità e il consenso è preteso poiché considerato un punto di partenza. Ne consegue che il conflitto è un rapporto antagonista in cui le parti lottano per ottenere il massimo risultato. Con tali premesse si perviene alla “rissa” che si affronta con il solo ausilio delle proprie forze fisiche e fonetiche nel senso che spesso il consenso si cerca gridando più forte. Se la conflittualità è vissuta come un fenomeno fisiologico intervengono i seguenti due elementi: l’accordo è cercato poiché considerato un punto di arrivo. Ne consegue che il conflitto è una fonte di energia che consente alle parti di ottenere congiuntamente risultati migliori di quelli che avrebbero potuto conseguire singolarmente. Con tali premesse si perviene alla “negoziazione” intesa come un processo in cui due o più parti interdipendenti, poiché portatrici d’interessi comuni e diversi, cercano di incontrarsi al fine di conseguire un obiettivo finale tramite il raggiungimento di un accordo di mutua soddisfazione. Il campo negoziale entro cui si “muovono” le parti può essere considerato come un segmento che, come tale, contiene infiniti punti dei quali gli estremi sono gli “interessi in gioco” e le “alternative all’accordo”. L’efficacia della negoziazione dipende prevalentemente dalla capacità di ascolto, dall’abilità nel gestire la tensione e dalla ricerca di un “valore aggiunto” derivante da ciascuna rivendicazione. Nella negoziazione entrano in competizione due tipi di comportamento: quello “creativo” del citato valore aggiunto costituito dalla percentuale dei propri interessi condivisi dalla controparte e quello “rivendicativo” dei soli propri interessi. Da qui nasce il “dilemma del negoziatore” tormentato dal dovere scegliere “quando, come e se” privilegiare uno dei suindicati comportamenti a scapito dell’altro. A maggiore chiarimento valga il seguente esempio.
Si supponga che due parti contendenti indicate come A e B assumano in sede di negoziazione uno dei possibili seguenti quattro comportamenti:
1° A e B “creano”. Il risultato della negoziazione sarà buono per entrambi.
2° A “crea” e B “rivendica”. Il risultato della negoziazione sarà ottimo per A e pessimo per B.
3° A “rivendica” e B “crea”. Il risultato della negoziazione sarà pessimo per A e ottimo per B.
4° A e B “rivendicano”. Il risultato della negoziazione sarà mediocre per entrambi.
Nel rapporto negoziale si realizza un “gioco” tra creazione e rivendicazione che ha trovato scientifica inclusione nella ben nota “teoria dei giochi”. Era il 1944 quando il Prof. John Von Neumann dell’Università di Princeton diede con il suo libro intitolato “Theory of games and economic behaviour” carattere scientifico, matematico ed econometrico alla teoria dei giochi. E ancora nel 1994 fu conferito il premio Nobel ai seguenti tre matematici cultori del “Game Theory”, i Professori John Nash dell’Università di Princeton, John Harsanyi dell’Università di Berkley e Reinhard Selter dell’Università di Bonn. Il merito dei tre scienziati consiste, tra l’altro, nell’avere elaborato un modello matematico dei soli due possibili tipi di gioco strategico che sono: il “cooperativo” in cui i giocatori contribuiscono insieme al conseguimento del migliore risultato e il “non cooperativo” in cui ogni giocatore pone in essere una strategia individuale finalizzata al solo proprio scopo. Ad esempio, il diffondersi del fenomeno delle corruzioni è assimilabile a un gioco cooperativo mentre quello delle tangenti è paragonabile a un gioco non cooperativo. In ogni caso, l’equilibrio di un gioco è, secondo la definizione di John Nash, “la strategia con la quale ogni giocatore massimizza il proprio risultato prevedendo le strategie degli altri giocatori”. Un tipico esempio è dato dal seguente “dilemma del prigioniero”.
In una città un negozio subì una rapina effettuata da ignoti che riuscirono
a dileguarsi prima che giungesse la polizia. A seguito dell’immediato rastrellamento quest’ultima fermò due pregiudicati, che chiamerò A e B, già condannati per rapina e che erano armati di pistola pur non avendo il porto d’armi. Entrambi furono portati dinanzi al giudice che, desideroso di avere notizie sulla banda di loro presunta appartenenza, disse ai due sospettati: “Quattro sono le ipotesi riguardanti l’imputazione contro di voi; domani dopo una notte di isolamento che non vi consentirà di comunicare tra voi, mi direte quale incriminazione e relativa condanna scegliete in conseguenza del fatto che confesserete o meno quanto mi interessa conoscere sulla banda a cui credo appartenete.
1° ipotesi. Se entrambi tacete, sarete incriminati per abusivo porto d’armi e condannati a un anno di reclusione.
2° ipotesi. Se A tace e B confessa, B è rilasciato e A è incriminato per rapina a mano armata e condannato a otto anni di reclusione.
3° ipotesi. Se B tace e A confessa, A è rilasciato e B è incriminato per rapina a mano armata e condannato a otto anni di reclusione.
4° ipotesi. Se entrambi confessate, sarete imputati per semplice rapina e condannati a quattro anni di reclusione”.
Dopo una notte insonne i due rapinatori scartarono l’ipotesi della totale reciproca fiducia di cui alla 1° ipotesi, nessuno di loro corse il rischio di avvantaggiare l’altro a proprio danno come previsto nelle ipotesi 2° e 3° e quindi scelsero la 4° optando entrambi per una completa confessione.
Il giudice ebbe tutte le informazioni che desiderava e l’intera banda fu sgominata. Non è importante sapere se la storia che ho raccontato è vera o immaginaria e se le sanzioni penali sono corrette o meno, è invece significativo notare come il giudice “giocò le proprie carte” attivando una strategia efficace e tutta rivolta a proprio vantaggio.
Il dilemma del prigioniero pone in evidenza come la negoziazione si colloca in uno degli infiniti punti di un intervallo lineare i cui estremi sono: il potere e la dipendenza. Il potere di una parte deriva anche dalla dipendenza della controparte e viceversa, esso si manifesta attraverso una o più delle seguenti tre categorie: competenza, autorità e terrorismo. La competenza dipende dal grado di conoscenza e cultura, mentre l’autorità e il terrorismo traggono origine dal grado gerarchico e dalle minacce. Nel suddetto campo negoziale il buon negoziatore cerca di capire cosa la controparte “veramente” vuole che non sempre coincide con quanto dichiara di volere.
I professionisti della negoziazione sono essenzialmente di due tipi:
positional bargaining e interest bargaining. I primi contrattano e assumono predeterminate posizioni, formulano le loro richieste e valutano il successo in conformità a quanto è accettato dalla controparte, conseguentemente la negoziazione si fonda su un’unica alternativa: “o vinco io o vinci tu”. I secondi contrattano interessi e considerano fondamentale l’accertamento dei reali desideri della controparte per confrontarli con i propri e cercare convenienti soluzioni alternative finalizzate alla reciproca soddisfazione. Il seguente esempio potrà meglio chiarire la differenza tra i due suindicati tipi di mediatore.
Un imprenditore riceve, con poco entusiasmo, da un suo dipendente la richiesta di un aumento di stipendio e, conseguentemente, deve negoziare detta istanza con la propria riluttanza ad accettarla.
Per l’identificazione dei due contendenti userò gli acronimi IM per l’imprenditore mediatore e DR per il dipendente richiedente al fine di semplificare l’esame dei possibili risultati nelle ipotesi che IM rientri in ciascuno dei due tipi di mediatore sopra indicati:
1° caso: IM è un “positional bargaining”. Egli penserà che DR chiede un aumento di X+Y al fine di ottenere almeno X e, pertanto, per reazione uguale e contraria, non proporrà un aumento inferiore a quello richiesto, bensì paventerà una possibile riduzione dello stipendio giustificandola con un vero o presumibile calo del volume degli affari e simili eventi negativi. In questi casi la contrattazione basata solo sulla difesa delle proprie posizioni conduce al seguente obiettivo: “tanto peggio per te tanto meglio per me”.
2° caso: IM è un “interest bargaining”. Egli cercherà di capire perché DR chiede un aumento di stipendio e, per esempio, scopre che la richiesta deriva dalla necessità di avere una maggiore disponibilità di denaro per fronteggiare sopravvenute temporanee o durature necessità familiari. Sulla scorta di questa preziosa informazione IM proporrà a DR, per esempio, uno o più dei seguenti incentivi tutti finalizzati a una reciproca soddisfazione: fare straordinari retribuiti, ricevere un premio se la produzione supera un predeterminato livello, ottenere una provvigione per il procacciamento di nuovi affari e simili. In questi casi la contrattazione basata sulla ricerca dei comuni interessi conduce al seguente obiettivo: “tanto meglio per te tanto meglio per me”.
Per quanto paradossale possa sembrare la migliore negoziazione può anche essere “la resa incondizionata” come nel seguente esempio. Alla Columbia University quando il Generale Dwight Eisenhower alla fine della seconda guerra mondiale ne era il Presidente, gli studenti per raggiungere un campus evitavano l’apposito marciapiede calpestando l’erba del prato circostante. A nulla servirono divieti e recinzioni, gli studenti insistevano tanto da avere formato sul prato un vero sentiero sul quale l’erba non poteva più crescere. Al fine di risolvere il problema fu interpellato Eisenhower che propose di costruire un nuovo marciapiede dove si era formato il sentiero e piantare l’erba al posto dell’inutilizzato marciapiede. Il saggio Ike implicitamente ammise che studenti avevano avuto un’idea alternativa migliore di quella originaria del progettista e quindi l’unica possibile mediazione soddisfacente per tutti era accettare la volontà manifestata dagli universitari arrendendosi incondizionatamente.
Una minoranza di persone, che è meglio evitare, è soddisfatta dal solo fatto di essere in conflitto, la maggioranza invece preferisce risolvere il conflitto anche a costo di perdere qualcosa pur di guadagnarne un’altra. E’ su questa considerazione che si fonda la strategia del “mini-max” secondo la quale prima di iniziare una negoziazione è necessario porsi queste fondamentali domande:
- Qual è il minimo che posso accettare?
- Qual è il massimo che posso chiedere?
- Qual è il minimo che posso accordare?
- Qual è il massimo che posso concedere?
Queste quattro domande esprimono il concetto base della strategia del mini-max che è: “Best alternative to a negotiated agreement. La migliore alternativa verso la negoziazione di un accordo”.
Nel gioco negoziale si possono assumere due tipi di posizioni: “dure” e “morbide”. Se si assume una posizione dura è difficile modificarla perché il “proprio io” si identifica con essa e ogni alternativa viene vissuta come il “perdere la faccia”. A maggiore chiarimento valga il seguente esempio. Durante la presidenza Kennedy tra L’America e la Russia sorse l’interesse a compiere reciproche ispezioni territoriali su eventi sismici sospetti. L’America ne propose dieci e la Russia ne accettò tre, ciascuno dei due Paesi si arroccò sulle proprie posizioni e, cosa altrettanto grave, nessuno indagò se l’ispezione consisteva nel fatto che un perito avesse dovuto dare una formale sbirciatina per un giorno o se cento scienziati avrebbero dovuto fare analisi di lungo periodo. Il risultato fu che la trattativa si arenò e, per quanto i due Paesi fossero seriamente interessati alla reciproca ispezione, l’accordo non fu trovato. Se si assume una posizione morbida, il gioco negoziale tende a enfatizzare l’importanza di costruire e mantenere il rapporto. Sovente ciascuna delle parti fa a gara per essere più generosa dell’altra con la conseguenza che il raggiungimento dell’accordo è tanto probabile quanto il risultato può essere pessimo come nel caso dei genitori divorziati che gareggiano tra loro sul numero dei regali da fare ai sempre più viziati figli. E ancora, in uno dei quaranta racconti di O. Herry, pseudonimo dello scrittore americano William Sydney Porter, si narra di una coppia di sposi poveri ma innamorati; per tale sentimento la moglie vende la propria lunga chioma per comprare una catena per l’orologio del marito che, ignaro dell’iniziativa della coniuge, vende il proprio orologio per comprare alcuni pettini destinati a reggere la folta capigliatura dell’amata sposa. In entrambi i precedenti esempi, il fallimento della negoziazione è dipeso dall’assenza di “analisi oggettiva” del problema con la conseguenza che l’emotività ha sostituito la razionalità fino al punto di non essere capaci a intravedere possibili alternative quali, per gli esempi proposti, indagare sul tipo di ispezione e accettare il fatto che, specialmente per i meno abbienti, è meglio andare insieme a comprare i regali perché mancherà la sorpresa, ma almeno si è certi di non sbagliare. Sull’argomento Roger Fisher e William Ury Professori dell’Università di Harvard suggeriscono di scindere le persone dal problema, concentrarsi sugli interessi e non sulle posizioni, inventare soluzioni vantaggiose per tutti e insistere su criteri oggettivi anche al fine di incrementare nel corso del rapporto conflittuale la percentuale delle proprie ragioni rispetto a quella dei propri torti. A tale proposito giova ricordare il seguente passo dedicato dal Manzoni nel suo romanzo storico a giustificazione, sia pure parziale, della vigliaccheria di Don Abbondio sempre schierato dalla parte del più forte: “A chi, messosi a sostenere le sue ragioni contro un potente, rimaneva col capo rotto, Don Abbondio sapeva trovar sempre qualche torto; cosa non difficile, perché la ragione e il torto non si dividono mai con un taglio così netto che una parte abbia soltanto dell’una o dell’altro”. In realtà, nelle istanze dei protagonisti di un rapporto conflittuale convivono percentuali diverse di ragione e di torto e una saggia negoziazione deve essere condotta sostenendo le proprie ragioni senza escludere l’ipotesi di avere torto. Tale comportamento prevede un’indispensabile “capacità di ascolto e tolleranza” perché i “sordi tuttologi” che per vocazione e rachitica intelligenza assumono il ruolo di eterni predicatori illusi di essere i titolari di un’unica verità, finiscono inesorabilmente con l’avere un solo uditore: se stessi.
R I F L E S S I O N I
Le seguenti riflessioni non perseguono il modesto scopo di proporre il mio pensiero nella celata speranza che esso possa colmare dei “vuoti”, ma hanno la ben più ampia aspettativa di stimolare il lettore a pensare da sé anche al fine di assicurarsi il piacere di stare in buona compagnia con se stesso e sfuggire alla solitudine. Esternare i propri convincimenti significa anche avere il coraggio di sottoporsi all’altrui positivo o negativo giudizio, perché ogni pubblica meditazione è un’ulteriore appendice al nostro “biglietto da visita” nel quale all’informazione su “chi” siamo, aggiungiamo quelle molto più significative e rilevanti su “COME” siamo.
I PENSATORI. Il mondo di oggi non brilla per numero di veri pensatori e l’intelletto spesso si disperde nei rigagnoli del pressapochismo. Emerge sovente una classe dirigente pubblica e privata più dedita al comando che alla gestione e che persegue il fine dell’obbedienza e non quello della condivisione. L’interesse di pochi sovrasta quello di molti, le differenze si accentuano, il rifiuto di ridurre le brutali disuguaglianze ha come conseguenza che la miseria è sempre più direttamente proporzionale alla ricchezza, l’arroganza e il disprezzo classista caratterizzano il comportamento di molti. Inoltre sono tuttora presenti moderne forme di schiavitù per le quali i padroni continuano a ignorare il loro debito nei confronti degli asserviti. La questione razziale è ancora irrisolta e il presente elenco accresce asintoticamente il numero degli elementi che lo compongono tanto da doverlo considerare costantemente incompleto. Nel perdurare di questa situazione, più che mai attuale è l’invettiva pronunciata nel Senato di Roma da Cicerone contro Catilina l’8 novembre del 63 A.C. (Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?).
La contestazione legale non sortisce effetti significativi e quella illegale non è auspicabile, l’unica aspettativa è riposta nell’attesa che si manifestino i cosiddetti “cicli vichiani” sull’alternanza di eventi ripetitivi e sperare che l’attuale oscurantismo ceda il passo ad un desiderato illuminismo. La storia ci insegna che Giovan Battista Vico, pur non avendo indicato tempi e durate di dette alternanze, aveva ragione.
LO STATO. Ovunque nel mondo la struttura della Pubblica Organizzazione Statale è costituita da coloro che, con ruoli diversi, comandano, gestiscono, contestano e subiscono. Il tipo di assetto istituzionale delle prime tre categorie qualifica la suindicata struttura come dittatura o democrazia. In questo mondo dove troppo spesso non solo la giustizia, ma anche l’ingiustizia non sono uguali per tutti, la quarta categoria sopra indicata non è di norma presa in alcuna considerazione.
LA TOLLERANZA. Intesa comunemente come accettazione delle diversità, la tolleranza è una qualità non sufficientemente diffusa poiché è sovente sovrastata anche dall’arroganza e dall’insolenza. Tanti e variegati sono gli oggetti della tolleranza tra i quali emerge la difformità delle idee che molti valutano, perché proprie, le migliori in assoluto al pari di coloro che nel corso dei secoli ancora ritengono il loro Dio superiore a qualunque altro. Una rachitica accettazione delle diversità o, peggio, il loro rifiuto, è in buona misura dovuta oltre che alla “fragilità” di carattere a uno scarso grado di civiltà, istruzione e rispetto per gli altri e mal celano un inconsapevole disprezzo per se stessi paradossalmente convinti di essere sempre dalla parte di un’unica ragione. I limiti della tolleranza variano in funzione dell’oggetto di riferimento. Non sono tollerabili le diversità rappresentate dalla malvagità, corruzione, terrorismo, pedofilia, fem- minicidio, violenza di genere, razzismo, illegalità e simili manifestazioni che, purtroppo, sono assai diffuse e che andrebbero condannate e punite severamente senza alcuna concessione di attenuanti. Un ricorso molto frequente alla tolleranza è quello cui si è costretti quando ci s’imbatte con l’altrui maleducazione o, più in generale, con le innumerevoli “bad manners”. La buona educazione non è più “di moda” e tutti i Galatei, compreso il primo scritto da Monsignor Giovanni Della Casa, andrebbero intitolati “Prediche inutili per maleducati e sordi congeniti”. E’ anche per questi motivi che emerge una ragione in più per comportarsi, almeno per se stessi, da “old fashion gentleman” anche a costo di suscitare ironie e sarcasmi, perché se il rispetto per gli altri può non essere apprezzato, è sempre auto gratificante quello per custodito per se stessi. La differenza tra un “signore” e un “cafone” risiede altresì nel fatto che il primo ha il dovere di restare tale anche nelle occasioni in cui potrebbe essere tentato di non esserlo. Sovente arroganti discendenti di una famiglia patrizia ritengono di essere, conseguentemente, titolari di “ereditata signorilità”. A fronte di tale falso convincimento replico che blasonati si nasce per puro caso, ma signori si diventa per costante determinazione.
In vero, coloro che accettano il confronto con le diversità, escluse quelle già indicate come “intollerabili”, arricchiscono il proprio bagaglio culturale perché il riscontro con “l’altro” sortisce una delle due seguenti alternative entrambe positive; infatti, o se ne trae conferma della bontà delle proprie idee o si coglie la preziosa opportunità di rettificare ed ampliare le stesse sotto i riflettori di una “nuova luce”. Giova osservare che, a mio sommesso avviso, il grado di tolleranza è inversamente proporzionale a quello della propria fiacchezza intellettuale e culturale. E’ verosimile che le suddette affermazioni non trovino un unanime consenso, ma non essendomi ancora imbattuto con un pensatore che riesca a convincermi del contrario, non mi resta che laconicamente prendere atto che “tal dei tempi è il costume”.
LEALTA’ E FEDELTA’. Non sono sinonimi anche se, per alcuni tratti comuni, sono da molti considerati tali. La lealtà è una significativa componente del nostro carattere e delle nostre modalità comportamentali tanto che coloro che ne sono dotati obbediscono ai propri valori di moralità e correttezza anche nelle occasioni di notevole difficoltà durante le quali potrebbe sembrare più conveniente essere sleali. La lealtà è commisurata al grado di coerente interconnessione tra la propria condotta e i citati valori che nel tempo si sono interiorizzati. Secondo Platone “solo l’uomo giusto può essere leale” e ancora giova ricordare la puntuale esplicitazione di John Ladd, professore di filosofia presso la Brown University, secondo cui la lealtà è, in ogni sistema pubblico o privato che sia, un ingrediente essenziale della morale civile e umana. La lealtà dovrebbe sempre caratterizzare, tra gli altri, la politica ed anche il mondo del lavoro nel quale è auspicabile un comportamento corretto nei confronti di coloro ai quali si rende la propria prestazione professionale, verso i superiori, i colleghi e i subordinati senza mai escludere la lealtà verso se stessi con la conseguente esigenza di tenere anche conto delle proprie aspettative, speranze, desideri e lecite ambizioni. Il dovere coniugare la lealtà verso gli altri con quella per se stessi può generare una difficile situazione denominata “conflitto di lealtà” in parte risolvibile con l’uso della ragione e la capacità di cercare la migliore conciliazione tra diverse esigenze spesso tra loro contrastanti. Giova osservare che in assenza del citato conflitto è più corretto riferirsi alla fedeltà per la quale i comportamenti assunti sono avallati da sentimenti che sovente sono sostenuti dai dogmi ai quali ci si riferisce senza alcuna mediazione scaturente dall’uso della ragione e dell’intelligenza. In sintesi “avere fede” significa credere ciecamente in qualcosa che non si è in grado di provare ragionevolmente. La fedeltà soddisfa prevalentemente un soggettivo bisogno ed è un sentimento che sta alla base di tutte le religioni. Essa trae origine dall’imprescindibile necessità di ritenersi indelebilmente legati al rispetto delle promesse e dei patti anche in materia contrattuale e non reclama consensi, approvazioni e ricompense. Ne consegue che la fedeltà è una virtù che ci vincola moralmente nei confronti di coloro sui quali, di norma, riponiamo la nostra rassicurante fiducia ancorché questo sentimento potrebbe non essere sempre essenziale per essere fedeli. La forma più diffusa di fedeltà è quella destinata al proprio Dio al quale ci si rivolge senza la necessità di un totale o parziale riscontro razionale dei dogmi, ma sostenuti da un sentimento nel quale, in notevole misura, convergono amore e speranza che costituiscono le fondamenta di tutte le religioni le quali promettono una migliore continuità della vita terrena alla quale credere per fede. Anche in questo caso scoppia l’irrisolvibile conflitto tra “ragione e sentimento” e più specificatamente tra “atei e credenti”. Un’indiretta e parziale chiarificazione dei sentimenti sopra indicati può, a mio sommesso avviso, cogliersi dal seguente sug- gerimento: Siate fedeli ai componenti della vostra famiglia, alla Patria e al Dio a cui credete e siate leali verso tutti i restanti e voi stessi.
L’UNITA’ NAZIONALE. Sin dalla sua, nei fatti, parzialmente fallita costituzione, l’Italia è stata considerata un’entità che, ben lungi dal costituire un “sistema coordinato”, mescola disuguaglianze territoriali, sociali, politiche ed economiche ottenendo il medesimo risultato di chi tenta di miscelare l’olio con l’acqua. A conferma di quest’affermazione è sufficiente sottolineare come esempio, che si aggiunge a tanti altri, il risultato della violenta campagna elettorale conclusasi con l’esito del 4 Marzo 2018 caratterizzato dal fatto che l’elettorato ha diviso l’Italia in due diversi schieramenti, coalizione di “destra” e movimento “5 stelle”, entrambi vincitori delle elezioni per il rinnovo del Parlamento. La classe politica di un tempo costituita dai De Gasperi, Malagodi, Almirante e Togliatti (per citarne solo alcuni) conseguì risultati lusinghieri (ottimi se confrontati con quelli ottenuti dai loro successori), ma non tali da ridurre il persistente “gap” tra il Nord e il Sud della penisola che si distinguono anche per “differenze antropologiche”. In occasione dei miei lunghi soggiorni milanesi ho più volte, con disappunto, assistito alla seguente scena: due lombardi di ceto molto modesto s’insultavano vicende- volmente, tra il serio e il faceto, dandosi del “terrone”, di contro sono compiaciuto per non avere mai visto un meridionale, del medesimo livello sociale, dare del “polentone” a un suo conterraneo. I due fatti possono essere giudicati insignificanti e banali, ma forse un più acuto critico avrà validi motivi per proporne una diversa valutazione.
La datata istituzione delle Regioni e il successivo federalismo, pur costituendo iniziative teoricamente apprezzabili, hanno in sostanza accentuato le differenze perché non solo non hanno rigenerato il logorato rapporto tra istituzioni e cittadini, ma hanno solo ben realizzato una crescita di potere e conseguente corruzione grazie anche alle migliaia di cariche elettive che si sono aggiunte a quelle, già fin troppo numerose, preesistenti. Tutto quanto sopra evidenziato non poteva non ripercuotersi anche sull’economia nazionale; una delle tante inchieste condotte da Il Sole 24 Ore ha rilevato che l’industria manifatturiera prospera al Nord anche a livello internazionale, mentre al Sud essa cerca di sopravvivere sotto il peso di un’ossessiva burocrazia, di una mafia sempre più invadente, di una dilagante corruzione e di un’ingiusta fiscalità statale e locale. Non sono certamente confortanti le dichiarazioni di chi afferma che in molti casi la Grecia, a cui dobbiamo essere grati per non essere “ultimi” in Europa, sta peggio di noi, infatti, non è consolatorio che anche per questa fattispecie si goda di quella che io definisco la “soddisfazione per essere stati sorpassati in retromarcia”. Il sogno dei benefici di cui i siciliani avrebbero dovuto esultare grazie all’autonomia regionale è miseramente fallito e con esso quello di un federalismo costruito su fragili plinti di fondazione in materia amministrativa e fiscale. Le scelte di politica economica, in aggiunta alle non poche colpe del popolo, hanno perseguito finalità molto diverse da quelle che avrebbero dovuto e potuto conseguire. I flussi di denaro erogati alle Regioni del Sud hanno consentito al potere centrale di “mettersi a posto con la propria coscienza” (?), ma nessun serio e doveroso controllo è stato mai fatto, e così buona parte di detto denaro è ritornata al mittente per il tramite del più efficiente dei suoi corrieri, la mafia. Il resto del denaro non è servito per migliorare i servizi, ma a tamponare le falle di una finanza pubblica locale più vorace dell’aquila che dilania il fegato di Prometeo. A questa e ad altre considerazioni sulla “qualità” della classe politica si può obiettare che i politici non sono tutti incapaci e corrotti e ripetere la solita raccomandazione che “non bisogna fare di tutta l’erba un fascio”. Pur tuttavia, è utile precisare che la responsabilità penale è la sola a essere soggettiva a differenza di quella politica che è collettiva; di conseguenza i politici competenti e onesti, se pur ce ne sono, sono comunque “tutti” coinvolti nella suindicata responsabilità. La riforma del fisco e la questione meridionale sono ancora soltanto “buone intenzioni sbandierate ai soli fini elettorali”, a esse volutamente non si è data alcuna seria soluzione anche perché coloro che dovrebbero provvedervi sono troppo impegnati a tutelare i vari interessi personali e i privilegi della casta di appartenenza. A tale proposito, è opportuno precisare che ciò che i comuni cittadini chiamano “spreco” è per molti politici “investimento”.
Giova osservare però che nulla è più noioso e inutile di un “secolare lamento” al quale sono dedite numerose parti della popolazione del Mezzogiorno più disposte al subire che al fare e a poco vale la scusante che il Sud è stato penalizzato dalla dominazione di Greci, Arabi, Spagnoli e altri non troppo antropologicamente diversi dai precedenti, mentre il Nord ha beneficiato di quella Austroungarica. Inoltre, sarebbe ingiusto attribuire tutte le colpe dell’attuale situazione politica ed economica alle sole classi politiche (elette anche dagli stessi lamentosi meridionalisti) secondo la ben collaudata tecnica dello “scarica barile” che conduce alla conclusione che la colpa è sempre di un altro preferibilmente scelto tra gli assenti; ma è pur vero che un Mezzogiorno abbandonato frena anche lo sviluppo del Nord e ciò dovrebbe fare auspicare una “inversione di rotta”.
Nell’attesa che questo miracolo si avveri i popoli del Sud non dovrebbero più considerarsi sottoposti a un destino crudele avallato, secondo la nota visione di Giovanni Verga, da un immobilismo familiare, sociale ed economico al quale un fato impietoso li ha ineluttabilmente costretti sin dalla nascita, ma, forti delle proprie varie risorse, costruire una “riscossa” che parta dalla seguente premessa. Il Mezzogiorno di questa penisola potrà sperare di cambiare solo quando il cambiamento sarà autenticamente voluto e palesemente costruito dalla sua gente perché il “silenzio dei buoni” è sovente più dannoso delle “grida dei cattivi”. Se ciò avverrà, sarà un passo significativo verso la costituzione dell’Italia finalmente unita.
LA PATRIA. La Patria non sempre è la Nazione nella quale casualmente si nasce, ma il luogo dove legalità, solidarietà e speranze sono i pilastri sui quali gli “amici di uno Stato amico” possono liberamente costruire il loro futuro e forgiare il proprio destino. Fortunati sono coloro per i quali i due posti coincidono.
IL CONFINE E LA FRONTIERA. Il confine è il perimetro di un blocco omogeneo che mostra tutta l’insicurezza derivante dalla necessità di sentirsi protetti. La frontiera è un limite che racchiude una comune identità fondata sull’individualità personale e collettiva con riferimento a categorie aventi per oggetto l’etica, la morale, la cultura, la politica, l’economia e le tradizioni.
Alla presenza di una crescente emigrazione raramente seguita da un’auspicabile integrazione sarebbe opportuno che tutti ci ponessimo, anche metaforicamente, la domanda se è più difficile superare gli ostacoli di un confine o quelli di una frontiera.
LE OPINIONI. Cambiare le proprie idee è legittimo perché solo un malinteso concetto di coerenza ci impone a considerarci perennemente vincolati ad un presunto obbligo di fedeltà ai convincimenti già esternati. Pur tuttavia, ogni sopravvenuto cambiamento delle nostre opinioni deve essere sempre avallato da una rigorosa analisi motivazionale senza della quale il “mutar d’avviso” è estemporaneo e inattendibile.
I DELITTI E LE PENE. La disputa tra coloro che sono a favore o contro la pena di morte è tra quelle definibili “senza soluzione di continuità”. Personalmente sono tendenzialmente propenso a schierarmi con i secondi, ma mi considero un fortunato per non essere stato mai chiamato a proporla per chi è colpevole “al di là di ogni ragionevole dubbio” perché, per esempio, colto in flagranza di reato. Devo confessare che in questi casi sarei perplesso se suggerire una pena ancora più pesante di una liberatoria morte e cioè un ergastolo non soggetto a futuri sconti di pena concessi in conformità a norme spesso costruite su un’eccessiva indulgenza e sull’assenza della certezza della pena. Oggi la condanna a morte è in alcuni Paesi comminata per gravissimi crimini quali omicidio e stragi e non più, come in un lontano passato, per lesa maestà, alto tradimento e simili. L’elenco di questi reati era altresì esteso alla stregoneria, all’eresia e alle idee e comportamenti contrastanti con i dogmi e i principi della Chiesa Cattolica. Per detti crimini gli spietati giudici dei tribunali della Santa (?) Inquisizione erano anche dediti a infliggere agli imputati torture finalizzate ad ottenere confessioni, vere o false, che giustificassero un verdetto di morte. Se mi dichiaro agnostico sul tema in argomento, non ho dubbi nell’affermarmi convinto oppositore di quella che definisco la “seconda pena di morte”. Mi riferisco ai casi, rari ma significativi, nei quali il giustiziato viene da morto esposto al pubblico disprezzo secondo una medievale consuetudine che, con deprecabile zelo, è stata ereditata da alcuni fanatici ignoranti che con assurda e crudele scelleratezza hanno esteso la pena di morte perfino a monumenti e siti archeologici patrimonio dell’umanità. Inoltre confermo questo mio convincimento anche nei non infrequenti casi nei quali il pubblico dispregio è fondato su ragioni umanamente condivisibili fino a giustificare pure un desiderio di vendetta ancorché tardivo. In Italia non esiste più la pena di morte, l’ultima fu eseguita in due diverse circostanze, la prima a Giulino, dove il 28/4/1945 furono fucilati “in nome del popolo italiano” alcuni gerarchi fascisti e, secondo una controversa versione dei fatti, Benito Mussolini e, volontariamente o casualmente, Claretta Petacci per la quale non ci sono storiche ragioni che possano giustificarne l’uccisione che, comunque, avvenne. Infatti, non sono ascrivibili all’amante di Mussolini colpe inerenti la persecuzione degli Ebrei Italiani, l’uccisione di molti partigiani e la funesta decisione di entrare in guerra al fianco di Hitler. Pur tuttavia nell’immaginario collettivo la Petacci era colpevole per il vincolo d’amore che la legava al Duce fino al punto di seguirlo consapevolmente pure alla morte. A tale proposito mi chiedo: anche l’amore, ancorché nutrito per una persona ritenuta indegna, è da considerarsi una colpa mortale? No, decisamente no; infatti, per esempio, nessuna pubblica accusa è stata mai sollevata contro la madre del pluriomicida e bandito siciliano Salvatore Giuliano che accompagnandone la bara singhiozzando ripeteva i seguenti non condivisibili aggettivi “Turiddu, figghiu mio santu e buono”. La seconda pena di morte, non ordinata ma tacitamente tollerata, fu inflitta, dopo la loro fucilazione, a sei gerarchi, a Mussolini e alla Petacci il 29/4/1945 a Milano in Piazzale Loreto. Quest’ultima, forse come risposta positiva alla mia precedente domanda, fu privata della biancheria intima che portava sotto la gonna e poi, insieme con gli altri, furono tutti ricondannati, da morti, all’impiccagione a testa in giù. Durante il periodo fascista e quando con la ”liberazione” esso cadde definitivamente, io ero appena un bimbo e quindi non ho esperienze dirette ma solo conoscenze dovute a ricerche e studi su quello che considero un deprecabile “ventennio”. Pur tuttavia sono convinto che una seconda pena di morte non debba essere inflitta in nessun caso poiché la stessa ha radici, motivazioni e scopi sicuramente peggiori di quelli che potrebbero anche giustificare la prima decretata per i viventi. La morte in sé merita rispetto, essa comporta la cessazione di ogni tipo di rapporto con chi è ancora in vita, resta solo, per chi ci crede, il definitivo giudizio di un Essere soprannaturale pietoso o vendicativo. Inoltre le civili legislazioni prevedono che non si può essere condannati due volte per il medesimo reato, secondo il brocardo, antica massima giuridica, il quale contiene il seguente principio del diritto che così recita: “Ne bis in idem”. Se detta norma è in vigore per i vivi, perché non sempre è valida anche per i morti?
L’ISTRUZIONE. Il “primo giorno di scuola” dovrebbe non prevederne l’ultimo poiché l’istruzione è un processo senza soluzione di continuità che si evolve durante l’intera vita di ogni individuo. La voglia di studiare, scoprire, conoscere, imparare (rectius: interiorizzare) ed elevare il proprio livello culturale e intellettuale dovrebbe essere un “piacere” che ci gratifica per tutta la vita. La conoscenza è senza limiti, essa non può essere per ciascuno di noi compiutamente acquisita, ma ogni tappa di un nuovo apprendimento dovrebbe essere lo stimolo per tentare di raggiungere un successivo traguardo. Lo studio è simile a un cibo che paradossalmente non lenisce la fame, ma la aumenta. Inoltre non è baloccandosi che s’impara, lo studio è propedeutico alla gioia del- l’apprendere e alla sofferenza della continua scoperta di quanto vasto è il nostro non-sapere. Non sono certo invidiabili, ma forse beati, i tuttologi confortati dalle loro arroganti certezze e chi vive nell’oscurità dell’ignoranza (uno dei pilastri della felicità dei poveri di spirito) mai tormentati dal dubbio e serenamente confinati in un tranquillo alveo che, in materia di studio, non conosce sacrifici, confronti e le inevitabili sconfitte inflitte a quanti siamo ininterrottamente iscritti alla “scuola di coloro che sanno meno di quanto vorrebbero”. A tale proposito mi sovvengono le sagge parole del mio Maestro che, includendomi generosamente nella seguente categoria, soleva dirmi: “Noi intellettuali paghiamo sempre di persona”. E’ anche sulla scia di quest’osservazione che, al fine di incrementare e nobilitare il proprio grado d’istruzione, ritengo sia necessario avere un’intelligente strategia di studio, una costante sete di sapere e la volontà di spingere le proprie conoscenze verso i loro estremi limiti. A conferma delle superiori considerazioni giova ricordare quanto scrisse Marco Tullio Cicerone: “Ci sono più uomini resi nobili dallo studio di quanto non lo siano dalla natura” ed il monito che Dante nel XXVI canto dell’Inferno fa dire a Ulisse: “Considerate la vostra semenza: fatti non foste per vivere come bruti, ma per seguire virtute e canoscenza”. In entrambe le suindicate affermazioni il sapere è valutato come una delle principali ragioni dell’esistenza umana.
LA CULTURA E L’INTELLIGENZA. La cultura (dal latino colere “coltivare”) è un “insieme” di saperi, credenze, costumi, opinioni e comportamenti che caratterizzano soggettivamente e collettivamente un determinato gruppo di persone anche in funzione della loro eredità storica. La suindicata concezione è tra le altre (sociologica, tecnologica, pedagogica, etc.) quella antropologica che, a mio parere, più compiutamente definisce detto sostantivo. L’intelligenza (dal latino intelligere “capire”), non ancora universalmente definita probabilmente a causa delle sue svariate forme, può essere identificata, almeno per il genere umano, come un “insieme” di abilità soggettive, psichiche e mentali che consentono di meglio tentare di giungere alla “corretta conoscenza” tramite l’uso della ragione. In senso più ampio, l’intelligenza è una “proprietà cognitiva” direttamente proporzionale alla soggettiva capacità di “adattare i propri pensieri e comportamenti all’ambiente circostante” al fine di “fronteggiare e provare a risolvere con successo nuove situazioni”. Le suindicate incomplete definizioni mostrano che cultura e intelligenza non sono sinonimi e tanto meno la prima coincide con la seconda; la più sintetica differenza tra i due “insiemi” evidenzia che la cultura si fonda sul “sapere” mentre l’intelligenza sul “ragionato buon senso”. Purtroppo è diffuso l’errore di considerare una persona colta anche intelligente dimenticando il detto popolare che qualifica molti contadini “scarpe rotte (poca cultura) e cervello fino (molta intelligenza)”. Detto errore assume valori esponenziali se una persona colta si considera, conseguentemente, intelligente. Giova osservare che le suindicate qualità non sono mai totalmente presenti o assenti; infatti, nessuno di noi è compiutamente colto (anche se in un solo campo del sapere) o totalmente idiota (salvo che per gravi patologie). Secondo una parziale verità, colti si diventa e intelligenti si nasce. Se detta affermazione è vera per la cultura, non è del tutto condivisibile per l’intelligenza che può, molto proficuamente, essere coltivata tramite lo sforzo di più adeguatamente riflettere anche sulle possibili “alternative”, di meglio prevederne gli “sviluppi” e di non fermarsi sempre “alla prima taverna”. Per azzardare un chiarimento basterebbe confrontare un giocatore di scacchi con quello di roulette; il primo non fa una mossa senza avere riflettuto sugli effetti che la stessa avrà su molte delle successive, il secondo si affida al “caso” o, al massimo, sceglie di puntare su quei numeri che, per irrazionali motivi, ritiene essere i più fortunati. Nei casi in cui un’elevata cultura e una notevole intelligenza sono entrambe qualità di un medesimo individuo, si è di fronte a una “rarità” che affascina e imbarazza chi non ne è dotato in pari misura. In tali situazioni è bene dilungarsi a pensare prima di “proferire verbo” e, sovente, è meglio ricorrere a un “intelligente silenzio”. A tale proposito un ottimo consiglio ci viene da Samuel Langhorne Clemens (pen name Mark Twain, scrittore, umorista, aforista e docente Americano) che così recita: “Sometimes it’s better to keep one’s mouth shut risking to appear stupid or ignorant than open it and remove all doubt”. Sommessamente aggiungo che è sempre meglio non fare domande se non si è in grado di capirne le risposte. Se io potessi scegliere per me stesso, opterei per essere più intelligente che colto, perché l’intelligenza è uno degli incentivi più stimolanti ad ampliare la propria cultura.
LA VECCHIAIA. E’ anch’essa una malattia ancorché non trovi una sua autonoma trattazione nei testi di medicina perché, in diversa misura, aggredisce non uno ma tutti gli organi del corpo umano e nei casi peggiori anche la mente. Sull’argomento la letteratura non è fiorente, ma le riflessioni di Massimo Fini esposte nel suo “L’inevitabile condanna della nostra vecchiaia” meritano un’attenta lettura. La completa conoscenza di questa patologia è riservata a coloro che la subiscono, per gli altri valgono indirette considerazioni di natura teorica.
Una semplificata suddivisione del genere umano riferita alla presente trattazione potrebbe classificarlo in:
- Giovani (per età)-Giovani (nello spirito).
- Giovani (per età)-Vecchi (nello spirito).
- Vecchi (per età)-Giovani (nello spirito).
- Vecchi (per età)-Vecchi (nello spirito).
Nella prima categoria, per la quale è auspicabile una sempre maggiore espansione, vanno inclusi gli studenti che vivono la propria “completa” giovinezza in modo costruttivo, dinamico e prospettico. Il desiderio di interiorizzare le conoscenze, meditare sulle esperienze altrui e la culturale curiosità sono tutte rivolte a forgiare il proprio futuro. Essi sanno ben calibrare il divertimento con lo studio perché senza rinunciare al primo, non trascurano il secondo. Sovente il naturale desiderio di realizzare i propri sogni e le ponderate aspirazioni li spinge a desiderare prematuramente di diventare “grandi” al più presto. Per essi giova ricordare il passo con il quale Giacomo Leopardi conclude il suo famoso “Il sabato del villaggio”: Garzoncello scerzoso, cotesta età felice (ndr. la giovinezza) è come un giorno d’allegrezza pieno, giorno chiaro, sereno che precorre alla festa di tua vita (ndr. l’età matura). Godi, fanciullo mio, stato soave, stagion lieta è cotesta. Altro dirti non vò ma la tua festa ch’anco tardi a venir non ti sia grave.
Nella seconda categoria, per la quale è auspicabile un sempre maggiore restringimento, vanno inclusi gli studenti che vivono la propria “incompleta” giovinezza in modo contrario a quello che dovrebbe essere orientato al proprio interesse presente e futuro. Per essi lo studio non è considerato un plinto di fondazione, pensano poco, parlano male e vestono peggio, non nutrono gran rispetto per gli altri e ancor meno per se stessi. Sovente tali negative qualità non sono interamente ascrivibili a loro colpe. In molti casi manca un ambiente familiare “sano e di supporto” nel quale i genitori dovrebbero assumere il gravoso ruolo di “formatori”. Anche i nonni hanno un significativo compito formativo se sono dotati della saggezza necessaria per sapere calibrare permissivismo e arrendevolezza, gioiose concessioni e sofferti rifiuti. Per la categoria in argomento non resta che sperare che in età matura si sia ancora in tempo per una costruttiva revisione delle proprie “modalità di vita” spesso sollecitata dalle delusioni che una prolungata “superficialità” ha generato.
Nella terza categoria vanno inclusi coloro che non si arrendono al fatto che la pelle si aggrinzisce, le forze tendono a mancare e i capelli (se ci sono) s’incanutiscono. Animati da “un intelletto giovanile”, non demordono dal desiderio di “conoscere”, sfuggono alla noia, tengono desta la mente non ancora del tutto succube della vecchiaia. In molti casi essi soffrono per essere poco ascoltati (i più danno poco valore alle parole di un vecchio) e nel costatare che le loro esperienze di vita, studio e lavoro non sono considerate da tanti un patrimonio che vorrebbero interamente trasferibile. In questi casi il solo consiglio suggeribile è parlare, confrontarsi e ponderare con se stessi. C’e un silenzioso, sottile sentimento di rivalsa triste e gioiosa nel sapere “vivere con se stessi”. Una nota positiva è costituita dal fatto che i componenti della presente categoria godono di un’ampia “libertà di tempo e di scelta”; non più assillati dagli impegni relativi alla propria attività lavorativa possono disporre di un patrimonio di non poca importanza, ma è necessario sapere utilizzare al meglio tale fuggevole ricchezza. Per loro un successo sarebbe lasciare una traccia del proprio operato e con essa una non vaga “memoria” consapevoli del fatto che ciascuno di noi “muore del tutto” quando si spegne negli altri il suo ricordo.
Nella quarta categoria vanno inclusi coloro che sono già “morti” anche se non figurano come tali all’Anagrafe. Per forti patologie mentali o, peggio, per apatica scelta vegetano senza coinvolgimenti, non sono affascinati dal desiderio di lasciare anche una loro minima impronta e nel migliore dei casi il solo interesse che nutrono è rivolto alla quotidianità.
Ciò che più rattrista è che, anche se tardivamente volessero, non hanno
sufficiente tempo per rimediare.
Se si escludono i frequenti casi di una prematura dipartita, la vecchiaia si conclude con la morte che secondo la Bibbia, Libro della Genesi è la finale punizione terrena con la quale Dio castiga Adamo ed Eva per avere mangiato il frutto a loro proibito dell’albero della conoscenza del bene e del male. Suggestionati da Satana entrambi si erano macchiati, per tale disubbidienza, del peccato di superbia finalizzato a segnare con la loro volontà, al posto di Dio, ciò che è bene da ciò che è male. L’inevitabile pena sancisce che ambedue siano privati dell’immortalità e con la loro progenie condannati ad affrontare i dolori dell’esistenza umana. Eva partorirà con dolore e sarà in potere dell’uomo, Adamo si procurerà il cibo con molto lavoro e sudore ed è ammonito con questa sentenza pronunciata per entrambi i peccatori: Ricordati uomo che polvere sei e polvere ritornerai. Per l’anima è riservato un diverso destino da affrontare con rassegnata fiducia. Per noi credenti la speranza ci spinge a desiderare che essa vedrà Dio per essere sottoposti al Suo insindacabile giudizio sulla nostra condotta terrena; per gli atei dopo la morte c’è solo il nulla.
Per onestà intellettuale devo ammettere che tra le due alternative la ragione mi induce ad essere tanto tormentato dal dubbio quanto la fede mi incita ad essere confortato dalla certezza.
F E L I C I T A’ E I N F E L I C I T A’ – R I C C H E Z Z A E P O V E R T A’
La felicità è un concetto tanto vasto che è molto difficile darne una definizione esaustiva anche a causa degli aspetti oggettivi e soggettivi che la caratterizzano. Infatti la felicità ha per oggetto le cose materiali e immateriali ed ancora è poco probabile che, per esempio, un alpinista aneli di possedere una barca a vela o a motore al fine di innalzare il livello della propria felicità. Per dette ragioni potrebbe essere considerata accettabile la seguente limitata definizione secondo la quale la felicità è lo stato d’animo che prova colui che ritiene appagati alcuni dei propri desideri. Per quelli inappagati la felicità, se è con troppa insistenza perseguita, può diventare paragonabile ad una riluttante donna che più sfugge a chi più la insegue. L’opposto è l’infelicità.
La ricchezza è lo “status” nel quale si dispone di una notevole quantità di beni atti alla soddisfazione di alcuni dei propri svariati bisogni. La ricchezza è sovente propedeutica al “potere” inteso come la capacità di ottenere il possesso di qualcosa materiale o immateriale anche se è da altri ostacolato. Il potere che scaturisce dalla ricchezza può manifestarsi anche come “ottenimento del consenso”; è il caso di molti politici che lo conseguono perfino quando non è meritato. L’opposto è la povertà.
I quattro sentimenti in argomento vanno citati e analizzati solo in senso relativo poiché nessuno è totalmente felice o infelice, ricco o povero. I cosiddetti felici e ricchi hanno sempre un ulteriore bisogno da soddisfare e ai cosiddetti infelici e poveri resta sempre la consolazione di rifugiarsi nella rassegnazione quale ultimo traguardo di una esistenza travagliata.
Per quanto banale possa apparire la seguente affermazione è, secondo il comune sentire, meglio essere felici e ricchi che infelici e poveri. Pur tuttavia se ciò è vero nel breve termine può diventare in parte falso a lungo andare a causa del virus della ”assuefazione” che riduce la differenza tra il primo ed il secondo gruppo di individui. Giova osservare infatti che per i felici, i ricchi, gli infelici e i poveri la scala dei bisogni, a fronte dei limitati mezzi atti a soddisfarli, tende all’infinito e nessuno può considerarsi definitivamente appagato per il loro totale conseguimento. Sia il ricco che il povero godranno sempre meno degli effetti scaturenti da un bisogno soddisfatto perché dopo un periodo più o meno lungo ad esso si assuefaranno e volgeranno lo sguardo a quello che nella citata scala occupa la posizione successiva, sentendone il desiderio. Alla luce di detta realtà potremmo considerare la felicità, l’infelicità, la ricchezza e la povertà come quattro semirette asintotiche che nel tempo si avvicinano sempre più l’una con l’altra fino ad incontrarsi anche se all’infinito. Realisticamente può affermarsi che il trascorrere del tempo è inversamente proporzionale alla differenza tra lo stato d’animo dei soggetti in argomento con la conseguenza che quest’ultima tende a livellarsi. Detto periodo è in qualche misura riducibile per quanti ritengono che “aver compagno al duolo scema la pena”; trattasi di una illusoria consolazione non condivisibile da quanti sono animati da sentimenti quali la fratellanza, la comprensione e la solidarietà con la nobile conseguenza che nel suindicato detto il verbo “scema” è sostituito da aumenta. Gli infelici e i poveri che anelano di diventare felici e ricchi dovrebbero lenire il dolore derivante dalla impossibilità di riuscire nel sospirato intento godendo appieno di quanto posseggono, orientare bisogni e ambizioni entro i confini del proprio stato sociale perché saggio è colui che sa rinunziare alle cose che non può ottenere e, pur tuttavia, senza che le necessarie abdicazioni determinino il perdurare di un atteggiamento del tutto arrendevole.
Per coloro che con poco buon senso si tormentano perseverando nel pur condivisibile desiderio di diventare come chi è ritenuto più felice e più ricco, valgano le eloquenti parole di Pietro Trapassi detto il Metastasio:
Se a ciascun l’interno affanno si leggesse in fronte scritto, quanti mai che invidia fanno ci farebbero pietà.
DIO FATO DESTINO E UN IMBARAZZANTE SONDAGGIO
Dio è per le religioni monoteistiche Ebraismo, Cristianesimo e Islam l’unico essere supremo dotato di poteri sovrannaturali e quindi sacro oggetto di venerazione per fede incondizionata.
Le religioni politeiste si contrappongono alle precedenti poiché i loro seguaci credono nell’esistenza di più divinità protettrici di molti aspetti dell’esistenza umana. La storia riporta un solo caso di religione politeista divenuta monoteista per circa un ventennio. Accadde verso il 1360 a.C. quando il Faraone Amenophis IV, detto Akhenaton introdusse il culto del solo Dio Aton raffigurato dal cerchio solare considerato l’unica fonte di ogni forma di vita. La riforma religiosa aveva anche lo scopo di ridurre il prestigio della potente classe sacerdotale. Essa causò forti disordini e ribellioni per l’intera durata del regno e dopo la morte del Faraone i Sacerdoti imposero il ritorno al precedente politeismo e appellarono Akhenaton “il nemico di Akhenaton”. E’ probabile che detto giudizio sia stato il primo che anche oggi è attribuibile ai tanti che soffrono per essere inconsciamente “nemici di se stessi”.
Nella cultura greca e romana il politeismo prevedeva l’esistenza di numerose divinità (a entrambe le popolazioni non difettava la fantasia) sulle quali si ergeva Zeus per i greci o Giove per i romani unanimemente considerato il “padre degli dei e degli uomini”, ma non per questo non soggetto egli stesso a sentimenti e desideri umani soddisfatti grazie al suo illimitato potere. Questa antropica debolezza attribuita a detto “padre” lo rendeva “a immagine a somiglianza” dei suoi figli terreni.
Il Fato nella cultura greca era considerato una entità cieca e misteriosa alla quale nulla può resistere e tanto naturale quanto divina poiché agisce senza alcuna comprensibile ragione modificando nel bene e nel male la vita del genere umano.
Secondo la più diffusa lettura filosofica con il termine Destino si fa riferimento a un insieme di eventi che determinano il presente e il futuro dell’intero cosmo e di ogni singolo individuo.
Quanto sopra evidenziato potrebbe indurre a considerare l’umanità come un inerme automa privo di una propria volontà e alla totale mercé di una o di tutte le suindicate entità. Di contro, la determinatezza di ogni singolo individuo pensante e ragionevole può contrapporsi, se non come protagonista, ma almeno nel più modesto ruolo di comprimario, ad una volontà superiore scegliendo di agire in piena autonomia per il bene (adottare un orfano) o per il male (uccidere un suo simile). Inoltre il riconoscere l’esistenza di una delle citate entità non esclude le restanti, infatti nel vocabolario di ciascuno di noi convivono espressioni del seguente tipo: Oh Dio. Che fato crudele. Era destino che.
Devo confessare che le modeste suindicate riflessioni mi suggerirono di programmare un sondaggio non del tutto disgiunto dall’oggetto di queste ultime. In mancanza della necessaria struttura organizzativa il sondaggio sarebbe stato limitato nell’aspetto quantitativo, ma significativo per la qualità degli intervistati tutti cattolici e dotati di una cultura a livello superiore. Mi proponevo di proporre le seguenti cinque domande alle quali l’intervistato, libero di non rispondere, avrebbe dovuto scegliere una delle indicate risposte .
Prima domanda: I credenti pregano il loro Dio perché lo amano o perché lo temono? Risposte: Lo amano. Lo temono. Per entrambi i motivi nelle percentuali del ….% per amore e del ….% per timore.
Seconda domanda: La vita merita di essere vissuta? Risposte: Si. No.
Terza domanda: Dopo la morte accetteresti di ritornare in questa vita con la medesima casualità con la quale sei nato?
Risposte: Si. No.
Quarta domanda: La nascita è un dono o una imposizione?
Risposte: Un dono. Una imposizione.
Quinta domanda: Sei favorevole o contrario alla eutanasia o al suicidio se essa fosse negata?
Risposte: Favorevole a entrambi. Contrario a entrambi. Favorevole alla eutanasia e contrario al suicidio. Contrario alla eutanasia e favorevole al suicidio.
Per quanto anonimo, il sondaggio sarebbe stato prevalentemente telefonico e quindi simile a quello “de visu” con l’inevitabile conseguenza di una notevole limitazione della riservatezza dell’intervistato.
Dopo lunghe riflessioni ho rinunciato all’impresa riconoscendo che le suindicate domande erano molto imbarazzanti e troppo invadevano la sfera privata degli intervistati. Inoltre giudico il grado di fastidio di una domanda inversamente proporzionale alla sincerità della risposta.
Come se ciò non bastasse mi sono chiesto quale sarebbe stato lo scopo e
l’utilità del sondaggio e la risposta è stata prevalentemente negativa perché invero tutte le suindicate domande si riferiscono alla soggettività degli intervistati riducendo il valore oggettivo dei risultati. Per di più suppongo che ciascuna risposta sarebbe stata suggerita, nel migliore dei casi, dalla ragione o dalla fede senza escludere quelle finalizzate a non apparire blasfemo e salvare le apparenze ponendosi in una posizione ritenuta “mediana”.
Indagare troppo nell’animo di un essere umano può essere stimolante, ma spesso rileva anche aspetti sgradevoli e forieri di polemiche e discussioni tanto sterili nella sostanza quanto bellicosi nella forma. Per questo motivo io stesso nella doppia qualità di intervistatore e di intervistato preferisco non rispondere ad alcuna delle suindicate domande convinto come sono che dopo la raccolta dei risultati del sondaggio e nel corso del consequenziale dibattito nessuno dei partecipanti modificherebbe i propri convincimenti che, per la materia del sondaggio, non dovrebbero essere soggetti ad alcuna mediazione.
L A S T O R I A M A E S T R A D I V I T A E D I N U L L A
La storia non dovrebbe essere solo una materia inserita nel piano di studi delle scuole medie, superiori e di alcune Facoltà Universitarie, ma una preziosa fonte di analisi e insegnamenti alla quale dovrebbero attingere tutti i componenti delle classi politiche, primi tra tutti i governanti, onde meglio gestire il potere a loro affidato o conquistato con la forza.
Basta uno studio non approfondito per avere sufficienti nozioni su quanto la storia passata e recente ci insegna su guerre, tiranni e dittatori. Numerosi sono i casi di sconfitte precedute da pompose dichiarazioni di facili vittorie e di vittorie paragonabili a quelle di Pirro, re dell’Epiro (l’attuale Albania) contro la Repubblica Romana tra il 280 e il 275 a.C., conquistate al prezzo di immani sacrifici di uomini e mezzi. La guerra è sempre una tragedia che coinvolge vincitori e vinti, essa è inoltre come raccomanda Clemenceau “una cosa troppo seria per lasciarla fare ai militari” ed io sommessamente aggiungo che, se fosse inevitabile, meglio sarebbe farla fare agli economisti. Per essa Einstein disse: “La guerra non si può umanizzare, ma solo abolire” ed ancora quando gli venne rivolta la domanda su quali armi sarebbe combattuta la terza guerra mondiale rispose di non saperlo, ma di essere certo che la quarta si farebbe a colpi di bastone e sassate. Altrettanto numerosi sono i casi di regnanti, tiranni e dittatori spesso sottovalutati anche se palesemente accecati dal- l’inumano desiderio di conquista e incuranti delle sofferenze che per essi vengono inflitte fin quando giunge, sempre tardiva, la loro capitolazione. Pur tuttavia i fatti descritti si replicano ancora oggi con una ripetitività attribuibile all’ignoranza, condita da palesi segni di follia, di quanti non traggono preziosi insegnamenti dallo studio della storia, ma sono solo interessati al conseguimento dei loro scellerati scopi. La laconica conclusione di quanto sopra evidenziato sarebbe che la storia è un “racconto destinato a una maggioranza di sordi” che pur potrebbero cogliere suggerimenti dalla lettura labiale; più realisticamente e con tristezza prendo atto che la storia è “una lezione tenuta in un’aula vuota”.
I N F E L I C I T A’ E G I O I E F A M I L I A R I
Sono esclusi dalla seguente trattazione le infelicità derivanti da malattie, guerre, epidemie, povertà e accadimenti negativi per i quali le vittime sono in genere incolpevoli. Di contro l’analisi è rivolta ai non rari casi in cui uomini e donne, sia pure involontariamente, partecipano a incrementare il loro grado d’infelicità. Preliminarmente ritengo che nessuno è titolare di una felicità o infelicità costanti, ma esse si manifestano in differenti termini percentuali tra i quali il più alto è, nella maggioranza dei casi, attribuibile a quest’ultima. Tale iniqua ripartizione non è dovuta al caso, ma al fatto che la durata della felicità è, per assuefazione, molto più breve di quella riferibile all’infelicità.
Nel corso della mia lunga vita ho osservato con spirito critico parenti, affini, amici e conoscenti e ho concluso che è nella famiglia dove più spesso si creano le condizioni incrementative del proprio grado di infelicità. Tra le numerose definizioni di famiglia, oggetto della mia ricerca, in nessuna si fa riferimento agli auspicabili vincoli affettivi tra i suoi membri, ma è citato il solo rapporto giuridico di parentela che lega tra loro i genitori e i figli nati e cresciuti in quel particolare “gruppo sociale” costituente la famiglia. Detta mancanza evidenzia che un qualunque componente di detto gruppo resta titolare di significativi diritti anche se per carenza di valori affettivi o di moralità non li meriterebbe.
La più comune distinzione tra famiglie è costituita da quella di origine, quella istituita dai figli che contraggono matrimonio e dalla cosiddetta famiglia allargata, tutte diverse tra loro. Per quanto riguarda i primi due tipi sorge spesso il formalmente lodevole tentativo di sommarle in un’unica famiglia. In pratica i risultati sono sovente contrari a quelli auspicati poiché possono sorgere ingiustificabili attese e pretese spesso deluse. La soggettività di ciascuna famiglia non consente somme ancorché avallate da sinceri affetti e dalle migliori intenzioni. Il passaggio dalla famiglia di origine a una nuova non è preclusivo al mantenimento di
tutti gli originali legami ed è auspicabile che i figli che contraggono matrimonio restino affettivamente legati alla propria famiglia di origine trasferendo i suoi valori a quella da loro costituita. Pur tuttavia i vincoli familiari prescindono da quelli affettivi, infatti, sono numerosi i casi di persone della medesima famiglia che non nutrono reciproci affetti anche e sovente per sovrastanti interessi economici. Un’analisi particolare merita la cosiddetta famiglia allargata costituita accettabilmente a seguito di vedovanza e, nella stragrande maggioranza dei casi, dal desiderio di “liberarsi” dell’altro coniuge o compagno.
Giova osservare che divorzi e separazioni sono “lussi” ragionevolmente consentibili alle coppie senza figli, ma di essi non dovrebbero beneficiare con eccessiva tempestività i genitori che non godono più di una serena convivenza. I frequenti litigi e le reciproche accuse tra coniugi e compagni non risolvono ma aggravano una già difficile coabitazione con il solo effetto di elevare il grado della loro infelicità. I risultati peggiorano se tali contrasti si manifestano alla presenza dei figli che ne trarranno indelebili danni per la loro “formazione”. Se “tutto è perduto” un buon genitore cerca rifugio e consolazione con se stesso e si sforza di “resistere” almeno fino a quando i figli avranno raggiunto una maturità e una consapevolezza tali da “subire” l’allontanamento del padre o della madre senza che il consequenziale trauma incida troppo negativamente sulla loro stravolta nuova vita. Molte sono le vie perseguibili per tentare di raggiungere una forma di serenità familiare ancorché sofferta, ma è necessario sapere scegliere la meno ripida e non abbandonarsi a “cieche e sorde” reazioni che causerebbero un esponenziale incremento della propria e altrui infelicità. Il coniuge saggio chiede comprensione offrendo la propria e con intelligenza analizza i propri correggibili comportamenti prima di criticare con anelastica rigidità quelli dei propri familiari. Egli accetta con serena rassegnazione le immutabili decisioni sulle scelte di vita che nel tempo si possono manifestare meno gradite rispetto a quando furono prese. Tale strategia è lungi dall’essere una “resa incondizionata”, ma è il lodevole tentativo di “salvare il salvabile” anche con il confronto verbale spesso chiarificatore perché l’ostinato “silenzio” avalla differenze che nel tempo diventano sempre più marcate. Il costante tentativo di “adattarsi” alle emergenti situazioni non significa necessariamente fingere, ma inviare un “messaggio di pace” che si auspica sia recepito e condiviso. Se nel tempo il coniuge ci appare diverso da quello sposato è necessario chiedersi se il cambiamento non abbia coinvolto entrambi nella consapevolezza che con il trascorrere degli anni tutti cambiamo e non sempre in meglio.
Perfino con i figli, se il rapporto è mal gestito, si creano le condizioni incrementative del proprio grado d’infelicità anche per i relativi possibili contrasti tra genitori. A tale proposito è da escludere qualunque tentativo che uno di essi si sforzi di assumere il ruolo di “buono” lasciando all’altro quello di “cattivo” così come sovente accade tra divorziati e separati.
Di fronte ai figli è auspicabile che i genitori si mostrino verso di loro concordi e solo privatamente risolvano eventuali divergenze su come impartire i necessari insegnamenti. Nel rapporto con i figli è necessario cercare di comprenderli, inculcarne i valori fondamentali, assecondarne le attese, esercitare un moderato rigore sempre sostenuto dal confronto che ne evidenzi le motivazioni e, soprattutto, non pretende che essi siano esattamente come i genitori vorrebbero che fossero.
Con riferimento all’oggetto della presente trattazione anche per gli scapoli e le nubili, che hanno deciso di non vincolarsi in un rapporto matrimoniale, la situazione non è troppo diversa da quella dei coniugi. La modesta differenza consiste nel fatto che i primi si godono una prolungata gioiosa libertà costellata, di solito, da diverse relazioni amorose e convivenze, ma col tempo li attente una triste solitudine.
La decisione di contrarre matrimonio o preferire una meno solida convi- venza dovrebbe essere preceduta da un’attenta analisi motivazionale attuale e prospettica spesso offuscata da superficiali giustificazioni di carattere estetico. Ancora più cosciente dovrebbe essere l’importante decisione rivolta alla procreazione nella consapevolezza che nessuno di noi ha chiesto di nascere, ma che ci è dato di venire in questo mondo solo per l’altrui volontà. Essa è di certo la più importante determinazione presa da una coppia che assume nei confronti della prole doveri di diversa natura e tali che anche l’economia aziendale, scienza molto diversa dal diritto di famiglia, definisce i figli “soggetti economici” intendendo per essi “coloro nell’interesse prevalente dei quali la famiglia è costituita ed è retta”. Tra i suindicati doveri occupa un posto di primo piano quello di realizzare tutto il possibile per non fare dei propri figli gli “orfani” privi della preziosa presenza dei viventi genitori.
Due tra i sentimenti familiari che possono generare gradi d’infelicità o di felicità cono l’avarizia e la generosità, la seconda gratifica il donatario e dà gioia al donante, di contro l’avaro non conosce la gioia del “dare”, si preoccupa solo di proteggere il suo patrimonio per il quale nutre una sfrenata gelosia ed è tormentato dal fatto che non può portarlo nell’aldilà, ma, come tutti, nudo è nato e trapasserà con soltanto uno tra gli abiti che possedeva.
Le presenti note non hanno la pretesa di fornire insegnamenti che solo l’inesistente “scuola per genitori” potrebbe impartire, questi ultimi devono “improvvisare” con il cuore e con la mente e saggiamente utilizzare l’esperienza acquisita come figli e quella tramandata dai propri genitori. Di una sola cosa si può essere portatori di un’infallibile certezza: nessun sacrificio è più lodevole e auto gratificante di quello che si fa per i figli, esso è uno dei mezzi migliori per creare almeno un briciolo di contagiosa felicità che contribuisca a fare della famiglia un’entità dotata di durevole serenità.
Articolo pubblicato nella rivista Bridge d’Italia al numero di Gennaio/Marzo 2017
La distinzione tra abili e inabili bridgisti è sempre stata l’oggetto di diverse valutazioni che, normalmente, hanno per contenuto la licitazione e il gioco della carta. Pur tuttavia, da una più attenta analisi possono emergere altri elementi che accentuano la citata differenziazione come nel seguito tenterò di dimostrare.
Da molti anni ho abbandonato il mio fruttifero poker per dedicarmi, con modesti risultati, al bridge e da dilettante ho partecipato a molti tornei in Italia e all’estero. Quale attento osservatore ho analizzato il comportamento dei miei partners e degli avversari al di là della loro capacità di licitare al limite del possibile o del conveniente e di realizzare il contratto grazie anche alla doppia compressione. Sono giunto alla conclusione che una buona coppia di bridgisti è costituita da tre compagni: tu, io e l’affiatamento e che un buon bridgista non solo licita e gioca le carte nella consapevolezza che si assume significative responsabilità nei confronti del partner, ma prende in carico un comportamento costruttivo finalizzato al raggiungimento del “migliore” risultato nel più ampio significato attribuibile a detto aggettivo. L’affiatamento e le modalità comportamentali, hanno numerosi e comuni denominatori che sono sovente sottovalutati a favore delle sole capacità bridgistiche sopra indicate. Aggiungere ai primi due il suindicato terzo compagno è, a mio sommesso avviso, un’impresa non facile perché non basta “intendersi al meglio” nel corso della licitazione e del contro gioco, ma è essenziale creare un solido “feeling” che consolidi la reciproca stima, fiducia e tolleranza per gli errori che anche i World Class possono commettere. Alla luce delle precedenti considerazioni la figura del buon bridgista, uomo o donna che sia, assume una dimensione più ampia di quella che, nell’immaginario collettivo, lo caratterizza. Quest’ultimo parte dalla considerazione che per l’intera durata di un torneo non può cambiare partner e, conseguentemente, è doveroso assumere un intelligente comportamento che escluda interventi che possano turbare quest’ultimo o peggio mortificarlo con lezioni non richieste, violenti e scoraggianti rimproveri ancorché bridgisticamente corretti, ma troppo spesso conditi da un volgare linguaggio più adatto a una taverna che a un Club. Meglio sarebbe fare rilevare lo sbaglio commesso con cortesia, concludere con la seguente rincuorante dichiarazione “anch’io commetto tanti errori” e tenere per sé la condivisibile decisione “questa è l’ultima volta che giochiamo insieme”. Mortificare il proprio partner è un atto maleducato e di pura idiozia perché quest’ultimo, molto probabilmente, cercherà di rifarsi dell’errore commesso e, sovente, ne commetterà un altro. L’unico difetto del bridge è, a mio avviso, ascrivibile al fatto che gli errori che commettiamo sono sempre imputabili all’ignoranza bridgistica e alla mancanza di concentrazione, la fortuna o la sfortuna hanno un ruolo estremamente marginale. Per tali ragioni è particolarmente difficile ammettere sbagli e malintesi e troppo spesso si ricorre a patetiche giustificazioni che aggiungono “nuovi errori al primo errore” che maggiormente indispongono il partner. Meglio sarebbe riconoscere subito il primo di essi senza aggravarlo con tergiversazioni e richiedere che il compagno non insista, come spesso accade, con la logorroica ripetizione del medesimo rilievo, tanto inutile quanto indisponente. Una buona coppia dovrebbe, nel reciproco interesse, chiudere ogni incidente con “cortese sollecitudine”. Chi pone un corretto rilievo merita che il compagno risponda alle osservazioni rivoltegli, mostri, se ha errato, la forza e il coraggio di riconoscere le proprie pecche e non si rifugga sotto la fragile protezione di un irritante silenzio. Sbaglia chi pensa di non rispondere per “non dare soddisfazione o perché chi tace, forse, acconsente”. Al contrario, ogni lodevole dichiarata ammissione di colpa incrementa i gradi di reciproca stima e fiducia e, non da sola, tende a beneficiare del prezioso terzo compagno. Infine, giova osservare che la cultura bridgistica non è direttamente proporzionale all’intelligenza bridgistica e che pochi sono dotati della prima e molti sono privi della seconda. Ciò non deve sorprendere poiché cultura e intelligenza sono categorie non conseguenti e assai diverse. Infatti, in estrema sintesi, la cultura è un “insieme di saperi”, mentre l’intelligenza è un “insieme di abilità finalizzate al perseguimento di un predeterminato scopo tramite l’uso della ragione”. Condivisibili o meno che siano le mie precedenti osservazioni, esse hanno, ahimè, il seguente punto debole poiché fanno riferimento non solo a considerazioni di carattere bridgistico facilmente accettabili, ma contengono consigli riconducibili al quoziente d’intelligenza di cui ciascuno di noi è dotato, alle “good manners” e, in generale, all’educazione e signorilità al tavolo verde. Queste due ultime categorie comportamentali non godono più della dovuta diffusione con la conseguenza che le presenti note rischiano di essere tumulate con i paragrafi di uno dei tanti testi intitolabili “Prediche inutili per sordi congeniti”.
Un locale di classe
Casa Lucia Via C. Ravizza Milano
Molto bella la parete sul fondo su cui sono inserite bottiglie dei migliori vini: Sassicaia, Brunello, Barolo etc. Inizialmente dividiamo una porzione di mortadella, accompagnandola con tranci di pizza. Molto buona la tartara ed infine una chase torte con sopra una salsa di lamponi. Chianti Frescobaldi Peppoli: buono. Servizio attento e professionale.
Di sabato locale pieno fino all’ultimo tavolo. Conto salatino.
Pomeriggi Musicali Faure’, Ravel e Beethoven
Bellissima l’ultima parte che ha visto al piano Filippo Gorini: una straordinaria interpretazione, applauditissima. Il giovane talento ha concesso poi il bis con un pezzo di Brahms.
MACHU PICCHU E GLI IMPERI D’ORO DEL PERU’- MUDEC MILANO
Ristorante Calabrese
Ne ignoravo l’esistenza, ma ne sono rimasto piacevolmente sorpreso
Antipasto con puntarelle, crostino induia ( moderatamente piccanre), bufala freschissima e un superbo assaggio di caponata. Pasta fatta in casa con gamberetti e verdurine ed infine a pezzetti un semifreddo.
Buon servizio e conta da trattoria.
Pomeriggi Musicali Brahms
La prima parte e’ stata molto intensa ed intetressante. Un po’ meno la seconda. Comunque sia l’orchestra che il Direttore Feddek molto bravi.
Sabato 21 gennaio 2023.
Ferito a Morte
Un racconto che dura il breve arco di una mattina, ma che si dipana attraverso undici anni di vicende, dal 1943 al 1954. Una polifonia di punti di vista, personaggi, voci, dialoghi, descrizioni e storie che hanno come palcoscenico Napoli, la città che «ti ferisce a morte o t’addormenta». Un romanzo, ormai un classico della letteratura italiana, sulla lotta tra natura e storia, sugli amori mancati, sui ritorni e i rimpianti, ma anche un capolavoro di stile, di suono e di musica in cui, come ammette l’autore, «il vero protagonista è il tempo: il tempo della giovinezza».
Roberto Andò affronta Ferito a morte di Raffaele La Capria, Premio Strega nel 1961, in una versione per il teatro creata da Emanuele Trevi, vincitore dello stesso riconoscimento a sessant’anni di distanza. «Come ogni racconto del tempo che passa – spiega il regista – il romanzo di La Capria, in modo del tutto originale e unico, è attraversato dai fantasmi della Storia. In questo senso è anche un libro sul fallimento della borghesia meridionale, sul marciume corrosivo del denaro, sullo sciupio del sesso, sul disfacimento della città all’unisono con chi la abita, sulla logorrea e la megalomania, sul piacere di apparire e fingersi diversi da come si è. Soprattutto è una storia, come ha scritto Leonardo Colombati, che non ha principio né fine. Per adattare (parola che da sempre mi sembra imprecisa o inadeguata) questo grande romanzo al teatro ho chiesto l’aiuto di uno scrittore come Emanuele Trevi, da sempre dedito nei suoi bellissimi libri a riportare in vita ciò che è scomparso, a riacciuffare quel punto della vita che altrimenti sarebbe condannato a svanire per sempre».
Durata: 120’ senza intervallo
Dopo diversi tentativi falliti, finalmente Roberto Ando’ (regista} e Emanuele Trevi (adattatore) riescono a trasporre in versione teatrale il capolavoro di Raffaele la Capria che nel 1961 vinse il premio Strega.
Lo spettacolo e’ un riproporre le conversazioni, ricordi e i luoghi evocati da una persona che sta lasciando Napoli per trasferirsi a Roma e fa un bilancio della propria vita.
In scena appaiono ben 16 attori prevalentemente napoletani che si esprimonmo nel “napoletanese” di Raffaele La Capria. Si prende in considerazione non il popolo, ma la borghesia napoletana e spesso si fa riferimento al “circolo”, luogo d’incontro di svago e di dipendenza dal gioco.
Insomma un classico il libro ed un successo la rappresentazione teatrale.
Museo NOVECENTO MILANO
Il Museo si trova
a fianco del Palazzo Reale in Piazza del Duomo. La visita e’ stata effettuata domenica 8 Gennaio e l’entrata era gratuita.

Felice Casorati (Novara 1883-Torino 1963) Manichini (Natura morta con manichini) 1924

Giorgio Morandi (Bologna 1890-1964) Natura morta 1940

Mario Sironi (Sassari1885-Milano 1961) Paesaggio urbano 1924

Carlo Carra’ (Quargnento (1881-Milano 1966) I Pescatori 1929-35

Henri Matisse ( Le Cateau – Cambresis 18969- Nizza 1954) Odalisca 1925

Umberto Lilloni (Milano 1898-1980) Lo specchiom1936

Giorgio de Chirico ( Volos1888 -Roma 1978) Manichini in riva al mare ; Il riposo del filosofo 1925-1926

Giorgio De Chirico La Sala d’Apollo 1920

Vasillij Kandinskij ( Moska 1866 -Neuilly sur Seina 19444) Composizione 1916

Pablo Picasso ( Malaga 1881- Mougins F 1973)
AUGURI PER IL NUOVO ANNO
Carissimi e’ con grande soddisfazione che vi comunico che ad oggi il nostro sito ha raggiunto i 100.898 utenti.
A tutti vada il piu’ caro augurio di un Buon ANNO NUOVO.